La rivoluzione sotto i piedi: il caso di campi aperti
Traduciamo:
“A Revolution under our feet”: Food Sovereignty and the Commons in the case of Campi Aperti
Marzo 2020
“È in atto una rivoluzione: sempre più cittadini cercano cibo sano, locale, non alieno, rispettoso delle persone e dell’ambiente. Sempre nuovi contadini cercano una via d’uscita dai mercati globali e si organizzano per vendere i loro prodotti direttamente in città. Un incontro che può produrre cooperazione sociale, democrazia e l’invenzione di modalità di produzione, distribuzione e consumo del cibo socialmente più giuste. Una meravigliosa rivoluzione. Cibo e terra come beni comuni”.
Da un manifesto scritto a mano in occasione dell’inaugurazione di un nuovo mercato Campi Aperti nel centro di Bologna, vicino all’Università (maggio 2016)
Introduzione
Nel luglio 2001, il movimento di alter-globalizzazione ha raggiunto un punto di svolta a Genova, quando la grande e più variegata manifestazione internazionale contro il G8 è stata interrotta da una pesante repressione poliziesca ed è culminata con la morte di Carlo Giuliani, con centinaia di feriti e decine di torturati. Due mesi dopo, con i venti di guerra che hanno seguito l’11 settembre, l’ondata di alter-globalizzazione è confluita nelle proteste contro la guerra dopo l’11 settembre e si è dispersa in rivoli più piccoli. Alcuni di questi gruppi, tra cui i consumatori critici e i piccoli produttori, erano interessati all’autogoverno della produzione e del consumo di cibo. Negli ultimi quindici anni sono emersi in tutta Italia nuovi movimenti alimentari che hanno sviluppato e messo in atto strategie, modelli e metodi di produzione e consumo alimentare autonomi. Essi hanno dato sempre più forma alla loro autonomia politica, sociale ed economica al di fuori dei canoni e delle normative top-down delle politiche agricole europee (Signori, S. et al. 2016).
L’Associazione Campi Aperti è un attore chiave tra queste pratiche di recupero del cibo. Ispirati dal messaggio e dalle pratiche del movimento sociale La Via Campesina e del casaro francese José Bové per la sovranità alimentare sostenuta in Europa al controvertice del G8 a Genova nel 2001, piccoli agricoltori, produttori e co-produttori hanno costituito Campi Aperti a Bologna, in Italia, nel 2002.
In questo articolo discuteremo le pratiche e l’organizzazione di Campi Aperti, evidenziando come i processi partecipativi all’interno di un’associazione di questo tipo siano in grado di sovvertire e superare in parte alcune nozioni chiave dei mercati alimentari capitalistici dominati dalle grandi aziende alimentari industriali, come la volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari, le forze individualizzanti e separatrici del mercato alimentare capitalistico e i meccanismi di autorizzazione del biologico da parte delle agenzie statali.
In questo senso, intendiamo Campi Aperti come un esempio inedito di reproduction commons rurale/urbano, che è un tipo di reproduction commons che coinvolge la produzione e la distribuzione di cibo. In questo modo, Campi Aperti ha dato vita a forme estremamente innovative di autogoverno inclusivo dei mercati alimentari, a meccanismi collaborativi di determinazione dei prezzi, a meccanismi comunitari partecipativi di autocertificazione della qualità e del biologico dei propri prodotti alimentari, perseguendo allo stesso tempo obiettivi di giustizia sociale, come la partecipazione a movimenti sociali per la sovranità alimentare.
Campi Aperti si definisce “Associazione per la sovranità alimentare”. La sovranità alimentare è un concetto sviluppato dal movimento contadino internazionale La Via Campesina, che conta milioni di membri in tutto il mondo provenienti per lo più da Paesi del Sud globale (Patel 2009, Pimbert 2009). Campi Aperti offre un interessante adattamento di questa filosofia politica nel contesto di un capitalismo alimentare avanzato in Italia. Offre inoltre un esempio di come sia possibile per i piccoli agricoltori sopravvivere alla concentrazione fondiaria promossa dalle Politiche Agricole Comuni (PAC) della Commissione Europea, che indirizzano i finanziamenti alle grandi imprese, indebolendo invece la piccola agricoltura locale.
A differenza delle lotte per la sovranità alimentare in America Latina, in Africa e in Asia sono ben documentate (African Centre for Biosafety 2014; Edelman 2014; Akram-Lodhi 2013; Dalla Costa 2007; Patel 2009, Rosset et al. 2006) e sono spesso percepite come soluzioni pratiche per sfuggire alle trappole della povertà e della migrazione. La discussione sulla sovranità alimentare in Europa è sottovalutata, anche se ha un alto potenziale promettente per gli agricoltori e i produttori per sfuggire alle carenze economiche del libero mercato (ECVC 2018). Inoltre, la pratica della sovranità alimentare stimola un’elevata varietà di pratiche di produzione e riproduzione incorporate nella pratica e nella scienza dell’agroecologia, offrendo soluzioni per mitigare e adattarsi alle crescenti sfide dei disturbi climatici. La convergenza di entrambe le insidie, quella economica e quella climatica, è il punto in cui la sovranità alimentare diventa politica, perché le risorse per la produzione, la riproduzione e la distribuzione del cibo richiedono una mobilitazione collettiva da parte di agricoltori, produttori e consumatori per de-centralizzare l’economia alimentare globale (La Via Campesina 1996). Percependo la sovranità alimentare dal punto di vista politico all’interno del contesto europeo, rifiutiamo l’idea che la sovranità alimentare possa essere parte dell’attuale sistema alimentare globale dominante; poiché questo sistema si alimenta estraendo risorse, mettendo i produttori gli uni contro gli altri e distorcendo le regole del mercato per i propri vantaggi economici. In altre parole, la sovranità alimentare è un paradigma che compete per le risorse e la distribuzione della produzione alimentare con il sistema alimentare industriale. Pertanto, una parte importante della lotta per la sovranità alimentare è dedicata alla formazione di alleanze con i politici, i dirigenti statali e i sindacati degli agricoltori, come modo per influenzare la micropolitica e la gestione per dirottare risorse materiali e immateriali per la costruzione di sistemi alimentari locali.
Facendo eco a Mansfield (2008), nel nostro articolo discuteremo le pratiche di sovranità alimentare di Campi Aperti nel loro contesto socio-politico. Ai fini dell’articolo, ci siamo concentrati sui complessi meccanismi politici orizzontali messi in atto da Campi Aperti, trascurando, per nostra ammissione, l’esame delle dinamiche di micropolitica interna.
I dati per questo articolo provengono da conversazioni e interviste con agricoltori, produttori e consumatori negli otto mercati di Campi Aperti a Bologna in un periodo di circa 2 anni, e dalle assemblee generali a cui abbiamo partecipato. Inoltre, abbiamo visitato tre agricoltori e produttori nella loro azienda. Abbiamo anche partecipato regolarmente alle assemblee generali bimestrali di Campi Aperti e alle assemblee nazionali del movimento Genuino Clandestino, una rete nazionale di piccoli agricoltori e consumatori critici, di cui Campi Aperti è stato membro fondatore. Abbiamo svolto un lavoro etnografico sul campo partecipando alle assemblee e visitando i loro mercati. Abbiamo infine utilizzato il sito web di Campi Aperti per raccogliere informazioni contestuali e di base e abbiamo avuto accesso al sistema di mailing interno. Il sistema di mailing interno è un importante strumento di contribuzione per diffondere informazioni sulla loro governance interna, dal momento che i produttori sono dislocati in sette province diverse. Uno studio preliminare è stato condotto nel periodo aprile-giugno 2016 e discusso da De Angelis in Omnia Sunt Communia (2017: 294-302). La seconda autrice Dagmar Diesner ha svolto un ulteriore lavoro sul campo da gennaio a luglio 2018 per la sua tesi di dottorato “Reframing food sovereignty in the context of Italy: Barriere e strategie di resilienza la concettualizzazione del commoning sul caso studio di Campi Aperti”. Quest’ultimo lavoro sul campo è stato sostenuto finanziariamente dalla Royal Geographic Society di Londra. Secondo stime recenti (maggio 2018), la rete mobilita circa ottocento ettari di terreno per produrre cibo di qualità coltivato in circa centoventi aziende agricole di piccola scala, i cui prodotti alimentari vengono venduti in otto mercati feriali nelle aree urbane di Bologna. Uno dei mercati si trova all’interno di una scuola, quattro all’interno di centri sociali e comunitari e tre su suolo pubblico.
Sovranità alimentare: concetto e pratica
Come già detto, Campi Aperti si definisce un’associazione per la sovranità alimentare. Occorre quindi esplorare il concetto di sovranità alimentare e il contesto in cui è emerso. La necessità di concettualizzare la sovranità alimentare è emersa nel momento in cui l’agricoltura è stata esposta a una nuova ondata di politiche neoliberali nel 1994, con la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’esposizione all’agricoltura neoliberista ha spinto i governi nazionali del Nord e del Sud del mondo a ridefinire le politiche e le legislazioni agricole per facilitare l’integrazione dell’agricoltura industriale nei paesaggi rurali. Ciò ha minato la capacità di contadini e agricoltori di tutto il mondo di mantenere il controllo su terra, sementi e accesso ai mercati (Desmarais 2007). Già frustati da oltre due decenni di politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali (IFI) (Patel 2009), i contadini e le contadine di tutto il mondo si sono riuniti alla vigilia della liberalizzazione dell’agricoltura per formare l’organizzazione contadina La Via Campesina.
I processi di privatizzazione rafforzano il ruolo disciplinare dello Stato e dei mercati attraverso la de-regolamentazione e la ri-regolamentazione, attraversando molteplici scale, dal locale al globale, e trasformando così le relazioni sociali autonome in attori in competizione a diverse scale della gerarchia sociale (De Angelis 2007, Mansfield 2008, Hardt e Negri 2000). Dal punto di vista dei movimenti sociali del 1994-1996, l’intenzione degli attori sociali era quella di riorientare il controllo dalle corporazioni allo Stato (Agarwal 2014, Patel 2009). In quest’ottica, la prima definizione di sovranità alimentare era “il diritto di ogni nazione a mantenere e sviluppare la propria capacità di produrre i propri alimenti di base rispettando la diversità culturale e produttiva… La sovranità alimentare è la precondizione per una vera sicurezza alimentare” (La Via Campesina 1996 in Patel 2009: 665).
Tuttavia, nel corso di quindici anni i movimenti sociali si sono progressivamente resi conto che lo Stato non aveva le capacità politiche, economiche e legali per ripristinare la sovranità alimentare nell’economia globale in espansione. Al contrario, le politiche neoliberali hanno continuato a intensificare i mercati aziendali e a esercitare pressione sulla frontiera delle materie prime (Moore 2015). La collusione tra Stato e capitale è stata visibile soprattutto a Genova, rendendola un punto di svolta per i movimenti sociali (Dalla Porta et al. 2006) alla ricerca di nuove alternative per generare, potenziare e manifestare l’autonomia politica sulle basi della riproduzione sociale, di cui il cibo è un elemento chiave.
Gli attori sociali radicali hanno avviato un lungo processo per la creazione di sistemi politici ed economici autonomi alternativi al capitale, che chiamiamo commons (De Angelis 2017). Hanno iniziato a prevedere una strategia di cambiamento radicale a partire dal livello locale, per una riarticolazione degli aspetti qualitativi e quantitativi del metabolismo sociale con la natura (Toledo 2014) e per trasformare le relazioni tra produttori e tra produttori e consumatori.
Il paradigma della sovranità alimentare ha quindi subito un’evoluzione verso la costituzione, la tutela e la diffusione di nuovi spazi/sistemi di produzione, distribuzione e consumo di cibo che generano sistemi alimentari virtuosi dal popolo per il popolo. Il paradigma della sovranità alimentare fornisce un quadro completamente diverso per organizzare le politiche alimentari e agricole a livello internazionale, regionale e locale. L’ultima definizione di sovranità alimentare è il risultato dell’assemblea mondiale dell’alimentazione a cui hanno partecipato 500 membri di oltre 80 Paesi nel 2007 in Mali. La dichiarazione finale è nota come dichiarazione di Nyéléni ed è diventata la base politica del movimento per la sovranità alimentare in Europa (2007):
“La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente sani e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli. Mette le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano cibo al centro dei sistemi e delle politiche alimentari… Offre una strategia per resistere e smantellare l’attuale regime commerciale e alimentare corporativo… La sovranità alimentare dà priorità al mercato locale […] e dà potere all’agricoltura contadina e familiare, […], alla produzione, alla distribuzione e al consumo di cibo basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. La sovranità alimentare promuove un commercio trasparente che garantisca un reddito equo a tutti i popoli e il diritto dei consumatori di controllare il proprio cibo e la propria alimentazione. Garantisce che i diritti di utilizzo e gestione di terre, territori, acque, sementi, bestiame e biodiversità siano nelle mani di coloro che producono cibo. La sovranità alimentare implica nuove relazioni sociali libere dall’oppressione e dalla disuguaglianza tra uomini e donne, popoli, gruppi razziali, classi sociali ed economiche e generazioni”.
Questa definizione, ora rivista, include una dichiarazione per il recupero e la protezione delle risorse per la produzione alimentare (terra, territori, oceani, acqua, semi e mercato locale) e per fare pressione sullo Stato affinché promuova politiche in tal senso. Il movimento per la sovranità alimentare nella maggior parte del mondo sfida il modello agroindustriale neoliberale imposto dai governi europei, e pone quindi diverse domande su come gli agricoltori, i produttori e i consumatori europei partecipino a questo sforzo. In che modo la concettualizzazione della sovranità alimentare sfida le multinazionali biotecnologiche, la tecnologia sofisticata e le politiche europee che approfondiscono la struttura del controllo sociale nel settore alimentare? Nel nostro articolo discuteremo le possibilità di riproduzione e commercio autonomo e le strategie per affrontare le barriere politiche e socio-economiche esistenti.
Campi Aperti
Il nostro caso di studio è l’Associazione Campi Aperti, per la quale la sovranità alimentare è un obiettivo di una forma organizzativa in evoluzione. Gli agricoltori associati sono situati nei territori di montagna, collina e pianura delle varie province sparse intorno a Bologna, capoluogo dell’Emilia-Romagna nel Nord Italia. Non è certo un caso che l’autogestione di un’agricoltura biologica da parte di piccoli e medi produttori sia stata avviata in Emilia-Romagna, che è composta per il 90% da terreni rurali (Commissione Europea 2015). Nel 2010 c’erano circa 74.000 aziende agricole, che producevano su 1 milione di ettari il 42% del fatturato totale italiano dei prodotti agricoli di qualità, il che pone l’Emilia-Romagna come il secondo produttore agricolo in Italia. Secondo le statistiche, solo il 3,3% dei terreni agricoli è destinato all’agricoltura biologica, mentre il 75% delle coltivazioni intensive in pianura e degli allevamenti impiega metodi ad alta e media intensità agricola che causano le cosiddette esternalità ambientali (ibidem). Inoltre, nella scheda informativa “Emilia-Romagna”, la Commissione europea riconosce che i problemi ambientali (l’alta concentrazione di nitrati e fosforo nelle acque dolci e sotterranee o l’erosione del suolo) rappresentano sfide fondamentali per la provincia (ibidem). Al fine di migliorare la sostenibilità ambientale, la regione Emilia-Romagna ha ricevuto 200 milioni di euro dai fondi strutturali di investimento dell’UE per 1500 progetti di investimento tra il 2013 e il 2020 per riorganizzare o modificare la struttura dell’agroindustria per affrontare le sfide ambientali. Tuttavia, in Emilia-Romagna, il numero totale di aziende agricole è attualmente di circa 74.000, evidenziando, nel migliore dei casi, l’inadeguatezza dell’intervento istituzionale. Inoltre, secondo il censimento dell’agricoltura (Istat-6° Censimento generale dell’agricoltura 2017) il maggior calo delle aziende agricole dal 1945 è avvenuto tra il 1990 e il 2010, proprio quando le politiche agricole sono state spostate nell’arena neoliberista sotto il WTO. In questo ventennio si è passati da 148.057 a 73.466 aziende agricole, con un calo di oltre il 50%. La Politica Agricola Comune (PAC), che sta dominando il panorama socio-economico agricolo europeo, incarna l’immagine post-fordista dell’agricoltore come imprenditore attivo nell’economia globale (Tilzey et al. 2008, van der Ploeg 2008). Paradossalmente, la Commissione europea intende risolvere le esternalità ambientali dell’agricoltura all’interno di questo contesto neoliberale che stimola l’ambiente competitivo, che ha portato questi problemi in primo luogo.
In questo contesto, i fondatori di Campi Aperti avevano un obiettivo chiaro: emanciparsi dalle politiche alimentari biologiche industriali e promuovere la capacità di produrre cibo al di fuori dell’economia alimentare industriale, e rilanciare l’economia alimentare locale. Campi Aperti ha affrontato questo obiettivo come una lotta e un’operazione strategica per mettere in moto il processo necessario alla trasformazione da una posizione subordinata e diseguale sotto lo Stato e il capitale, all’idea di creare uno spazio etico in cui riprodurre i mezzi di sussistenza come piccoli agricoltori insieme a nuove relazioni con i consumatori e relazioni agroecologiche con la natura. Il paradigma della sovranità alimentare è stato percepito dai fondatori di Campi Aperti come un quadro di riferimento dotato di sostanza politica, che offriva un margine di manovra sufficiente per essere adattato al contesto locale in cui operavano. “Lo scopo dell’autogestione dello scambio di mercato, della produzione e della riproduzione del cibo”, come ha detto Mara (2018), una delle fondatrici di Campi Aperti in una conversazione, “è orientato verso un mercato autentico che offra prodotti agricoli variegati che rispecchiano la grande biodiversità locale”.
Campi Aperti come bene comune
Ci sono tre possibili cornici interconnesse che possiamo utilizzare per analizzare un’associazione come Campi Aperti, sulla base di diverse osservazioni. Ci sono la sovranità alimentare, l’agroecologia e i beni comuni. Abbiamo visto che la prima costituisce un orizzonte politico, un obiettivo verso cui il movimento si orienta. Nella realizzazione della sovranità alimentare, l’agricoltura e i metodi di produzione agroecologici sono centrali. L’agroecologia è stata infatti annunciata come l’ultima innovazione per porre fine alla povertà e al cambiamento climatico dalle Nazioni Unite e dalle agenzie di sviluppo (FAO 2013). L’idea di scalare l’agroecologia per inserire gli agricoltori e i produttori nella catena di produzione e fornitura alimentare globale sta già diventando parte della più recente strategia mainstream (Parlamento europeo 2019). Tuttavia, questa scalata da parte di organizzazioni sovranazionali confuta l’intera nozione di agroecologia, come ha sottolineato La Via Campesina, “che le conoscenze necessarie per garantire la transizione agroecologica sono già disponibili sul campo, e che possono essere trasmesse da agricoltore a agricoltore e condivise attraverso le reti pertinenti” (Parlamento europeo 2019: 5).
Si parla quindi di agroecologia come strumento per decentrare l’agricoltura governando la sostenibilità del metabolismo sociale con la natura non umana e sviluppare sistemi alimentari virtuosi autonomi. L’agroecologia viene così descritta da Gliessman, che la definisce “un modo di riprogettare i sistemi alimentari, dalla fattoria alla tavola, con l’obiettivo di raggiungere la sostenibilità ecologica, economica e sociale. Attraverso la ricerca e l’azione transdisciplinare, partecipativa e orientata al cambiamento, l’agroecologia collega insieme scienza, pratica e movimenti focalizzati sul cambiamento sociale.” (Gliessman 2016: 187).
Per allontanarsi dal regime alimentare industriale verso un sistema agroecologico, Gliessman (2016) suggerisce cinque livelli di azione necessari. I primi tre livelli riguardano le pratiche di certificazione biologica partecipativa all’interno dell’agroecosistema riprogettato, che funziona sulla base di un nuovo insieme di processi ecologici (2016: 187-188). Mentre il livello 4 si occupa delle dinamiche con i consumatori, il livello 5 si concentra sullo spostamento dei pilastri dell’intero sistema alimentare verso la democrazia, la giustizia, la sostenibilità, la partecipazione e l’equità per proteggere il sistema di supporto alla vita della Terra (ibidem).
Il livello 5 della scala Gliessman si attiva attraverso la comunicazione diretta tra agricoltori e consumatori. Campi Aperti lo fa percependo i mercati aperti non solo come un puro luogo di scambio monetario-merceologico, ma come uno spazio in cui produttori e consumatori comunicano sulle insidie dei sistemi alimentari industriali, sulle loro difficoltà a gestire un sistema produttivo virtuoso, e sulla condivisione di conoscenze sulla cucina stagionale e sulle ricette di conservazione. Inoltre, diversi consumatori (definiti co-produttori) sono diventati parte integrante dell’organizzazione di Campi Aperti, Gli effetti collaterali di questa comunicazione e collaborazione diretta sono la ricreazione della fiducia tra produttori e consumatori e la circolazione delle idee. Questo circolo virtuoso di comunicazione, inoltre, permette all’associazione di acquisire forza nei confronti del suo ambiente. Così, ad esempio, “sebbene Campi Aperti sia una rete minuscola, ha effettivamente dato loro una maggiore leva politica nel comune di Bologna”, ha dichiarato il presidente di Campi Aperti in un’intervista a Dagmar Diesner (2018). Sono riusciti a ottenere un accordo vantaggioso con il Comune che ha permesso loro di ridurre le tasse di mercato per la raccolta dei rifiuti e l’elettricità.
È importante apprezzare qui come il pensiero agroecologico si incroci con il pensiero dei beni comuni, il nostro terzo quadro di analisi. “Ristabilire una connessione più diretta tra chi coltiva il nostro cibo e chi lo consuma” (Gliessman 2016: 187-188) implica la creazione di nuovi sistemi sociali, nuove istituzioni, basate su pratiche indotte da altri valori. I ruoli economici borghesi di produttori e consumatori sostenuti puramente dallo scambio monetario sono sostituiti dalla responsabilizzazione di produttori e co-produttori nel processo decisionale sul cosa, sul quanto e sul come produrre e distribuire. Questi sistemi di beni comuni (De Angelis 2017) sono sistemi socioeconomici in cui una comunità (i membri dei beni comuni) governa una certa quantità di risorse collettive a beneficio di tutti e si impegna in pratiche di commoning, il fare in comune attraverso forme di organizzazione partecipative e non gerarchiche di controllo, radicate nella socialità e nella cura reciproca e nella solidarietà, e praticando forme di metabolismo sociale con la natura non umana che sono curative, sostenibili e resilienti. È attraverso la messa in comune che l’intero sistema dei beni comuni, in tutte le sue diverse dimensioni, viene riprodotto e sviluppato. Nella prossima sezione discuteremo alcuni aspetti chiave di questa messa in comune.
La struttura di governance di Campi Aperti
La struttura di governance orizzontale di Campi Aperti consiste in un complesso insieme di tavoli di lavoro permanenti e di gruppi di affinità temporanei (vedi Figura 1). Mentre la comunicazione avviene liberamente tra questi gruppi, è nell’assemblea generale bimestrale che vengono prese le decisioni strategiche e politiche più importanti: si sviluppano nuove strategie per l’accesso ai mercati, si pianificano nuove collaborazioni con gruppi simili in altri quartieri o città e si discutono i negoziati con i governi municipali e regionali per far rispettare nuove leggi e regolamenti per la sovranità alimentare. Inoltre, ogni mercato ha una propria riunione mensile in cui i produttori e i co-produttori si riuniscono per affrontare esclusivamente le questioni relative a quel mercato. Questioni amministrative con il consiglio, possibili eventi e campagne, particolari questioni relative ai produttori, il governo dei soci, le regole e gli aspetti strutturali e organizzativi e i regolamenti interni.
Uno dei parametri fondamentali stabiliti da Campi Aperti è che i produttori con lo stesso specifico mestiere stabiliscono insieme il listino prezzi annuale per ogni prodotto. I produttori di ortaggi decidono il prezzo per ogni loro prodotto, così come gli erboristi, i casari e così via. I co-produttori hanno la possibilità di partecipare a queste discussioni. Le ragioni per vendere un’insalata o una dozzina di uova in una bancarella allo stesso prezzo di un’insalata e di una dozzina di uova in un’altra bancarella sono tre. In primo luogo, il produttore e i suoi dipendenti mantengono la dignità e il diritto a un sostentamento dignitoso. Secondo, evitare che i prodotti agro-ecologici subiscano la concorrenza dei prezzi che devasta i mezzi di sussistenza. In terzo luogo, non viene fatta alcuna differenziazione di classe rispetto all’accessibilità dei beni di qualità. A differenza delle transazioni di mercato impersonali in cui cane mangia cane, si tratta di un processo di conoscenza partecipativa che cerca di bilanciare diverse esigenze, quella del reddito degli agricoltori e quella dell’accessibilità di alimenti di alta qualità. In questo atto di bilanciamento, i produttori e i co-produttori si appropriano della “forma valore” marxiana e la iniettano di valori al di fuori della mera logica economica (De Angelis 2007).
Secondo gli agricoltori che abbiamo intervistato durante il lavoro sul campo (2016), i prezzi fissati per i mercati di Campi Aperti sono leggermente superiori a quelli dei supermercati e significativamente inferiori a quelli richiesti dai negozi biologici della classe media. La necessità e il vantaggio di un tale sistema di prezzi comuni sono molto chiari ai partecipanti di Campi Aperti. Uno dei fondatori lo ha detto chiaramente: “non ha senso stabilire il prezzo da soli, se vogliamo vendere i nostri prodotti” e commentando i meccanismi di mercato convenzionali: “il cliente va alla bancarella che offre lo stesso prodotto a un prezzo più basso. Ma poi il produttore con il prezzo più alto non vende nulla, mentre il mercato con i prezzi più bassi fa tutto il guadagno (De Angelis 2018). Il meccanismo di determinazione del prezzo comunitario è anche un incentivo per i nuovi produttori ad aderire a Campi Aperti. Tutti i nuovi agricoltori e produttori entrati negli ultimi dieci anni hanno confermato nelle nostre interviste che senza questa fissazione comune dei prezzi e altri aspetti dell’economia solidale, non sarebbero stati in grado né di avviare un sistema produttivo virtuoso né di ottenere un reddito. Ciò indica che da una struttura socio-economica autogestita e organizzata può fiorire una vivace economia alimentare locale.
A complemento della definizione collaborativa dei prezzi, Campi Aperti ha introdotto il sistema di garanzia partecipativa dei prodotti biologici, sostituendo così le licenze biologiche statali con licenze comuni e sostituendo i protocolli pubblico-privati con un processo di condivisione che definisce il proprio protocollo. L’ambito principale del sistema di garanzia partecipativa comprende aspetti economici, lavorativi ed ecologici. Il PGS elimina le barriere alla produzione e al commercio per i piccoli produttori che non possono permettersi di acquistare una licenza statale o che si sentono offesi dai metodi di certificazione, spesso elusivi. D’altra parte, il processo di controllo autogestito costituisce gli standard biologici di Campi Aperti, tra cui la produzione e il consumo a chilometro zero e l’applicazione di standard biologici e metodi agroecologici per tutte le fasi della produzione – dal seme al piatto. In altre parole, i produttori possono produrre solo alimenti locali e di stagione. Nel caso in cui un produttore trasformato abbia bisogno di cibo per la sua produzione al di fuori della sua base produttiva, deve utilizzare principalmente i prodotti della rete o della più ampia economia solidale, come lo zucchero dell’economia del commercio equo e solidale. Lo scopo di vendere e certificare i beni prodotti solo dai membri è quello di facilitare la crescita della fiducia nella produzione alimentare locale. Inoltre, il processo di certificazione esamina la qualità dell’acqua e del suolo, l’apporto di manodopera ed energia, i metodi di coltivazione, gli standard igienici dei laboratori e gli ingredienti necessari per la trasformazione dei prodotti (latte in formaggio, cereali in pane o birra). La necessità di concentrarsi sugli standard biologici di tutte le fasi di produzione serve a correggere le pratiche standard degli agricoltori con marchio biologico della Commissione europea. In effetti, una valutazione sulla riconsiderazione delle miglia alimentari nella produzione alimentare, condotta da Pretty et al. (2005), ha concluso che i costi di produzione esterni, come lo smaltimento degli imballaggi, il trasporto su strada e i sussidi, sono i principali responsabili dell’aumento dei costi ambientali. Ciò è stato ribadito in una delle interviste con un produttore di ortaggi che si è convertito dall’agricoltura convenzionale a quella biologica. L’ha spiegato così (Diesner 2018): “Quando ho deciso di passare all’agricoltura biologica, ho pensato di passare semplicemente da fertilizzanti e pesticidi non biologici a pesticidi e fertilizzanti biologici. Oggi la richiesta di agricoltura biologica è alta e i distributori rispondono offrendo corsi di informazione ad agricoltori e produttori su come produrre alimenti biologici… [Di mia iniziativa], mi sono rivolta a un docente universitario, che mi ha consigliato di fare un workshop di biodinamica per capire cosa significa il concetto di biologico. È stato un evento che mi ha aperto gli occhi… niente concimi “organici”, niente lavorazioni del terreno… Ho abbandonato la produzione biologica agroindustriale e mi sono unito a Campi Aperti.
A volte era rischioso e spaventoso, ma per fortuna, durante il periodo di transizione verso la produzione di alimenti biologici, ero accompagnato da un mentore. Avevo l’urgenza di “nutrire” le piante durante il periodo di crescita. Il periodo di crescita delle piante biologiche è molto lungo e non credevo che ce l’avrebbero fatta. Ma il mio mentore continuava a insistere: “Lasciatele stare”. ”
Il significato del suo commento sottolinea il fatto che le agenzie statali e i distributori mantengono le decisioni su chi può produrre, su come produrre, su chi produce e su dove va a finire il cibo. Campi Aperti sfida questo controllo sociale concentrato, economico e politico, sulla produzione, la riproduzione e la distribuzione con il PGS autogestito, che controlla l’accesso a Campi Aperti illustrato nella Figura 2.
Mentre la Figura 2 illustra il complesso processo decisionale per l’ammissione di un nuovo produttore a Campi Aperti, che rappresenta la prima fase del sistema di garanzia partecipativa, il PGS si articola in una seconda e terza fase. La seconda fase si svolge continuamente con un monitoraggio informale reciproco nei mercati, per assicurarsi che nuove linee di prodotti non appaiano sui banchi senza certificazione. La terza fase formale, invece, si svolge a cicli periodici. Per garantire lo standard biologico a lungo termine di tutti i produttori, ogni due o tre anni le squadre di esploratori visitano tutti i produttori per ispezionare la loro produzione virtuosa.
Le tre fasi della PGS creano fiducia tra i produttori e i co-produttori grazie alla vicinanza che il meccanismo della PGS crea virtualmente. Questo estende il senso di comunità da chi è fisicamente localizzato (legato alla terra) a chi è socio-economicamente definito (quindi non legato), generando così fiducia in tutte le reti commerciali che si estendono negli spazi urbani. La vicinanza e l’interazione ripetuta tra consumatori e produttori giocano un ruolo importante, come nelle comunità di villaggio, dove la reputazione è costruita o danneggiata principalmente dalla qualità degli alimenti forniti e la gente del posto può facilmente controllare le condizioni di coltivazione, compreso il tipo di foraggio utilizzato, le condizioni di vita degli animali, le entrate e le pratiche di lavoro degli agricoltori, dei loro collaboratori e così via. In altre parole, la vicinanza crea affidabilità dei prodotti attraverso la fiducia creata a livello di relazioni umane e quindi senza la necessità di intermediazione da parte dello Stato. In un contesto di villaggio, la fiducia è facilitata dai processi di condivisione in una varietà di forme nella località e distribuita attraverso reti di amici o conoscenti. Ma questo non funziona allo stesso modo nella città moderna e richiede una forma di innovazione sociale, che è ciò che fa Campi Aperti.
È importante riconoscere che il PGS è fondamentale anche per tracciare il confine dei comuni di Campi Aperti, un confine poroso che tuttavia seleziona gli agricoltori sulla base dell’etica delle loro pratiche e stabilisce connessioni con altri comuni. Ad esempio, se esiste e persiste una violazione continua dei valori e delle pratiche, il produttore o l’agricoltore viene espulso. I confini quindi mantengono ed espandono la sovranità alimentare, impedendo che venga annacquata da standard ecologici o lavorativi meno rigorosi. Ci sono stati casi in cui i produttori con uno stock limitato di prodotti, come la frutta biologica, hanno integrato la loro offerta di mercato con prodotti acquistati al supermercato, oppure che, una volta ammessi all’associazione e ottenuta la certificazione per alcuni prodotti, improvvisamente si sono visti vendere un tipo completamente diverso di prodotti non certificati. L’introduzione del sistema partecipativo-garantista (PGS) con il proprio marchio “Genuino Clandestino” da parte di Campi Aperti nel 2010 è un sistema per controllare i prodotti alimentari prodotti in loco che possono essere venduti nei loro mercati. Sebbene questo processo di auto-etichettatura sia stato criticato da alcuni potenziali membri come l’ennesimo sistema di controllo, da cui un sistema alimentare locale avrebbe dovuto essere la via di fuga dal sistema di regolamentazione statale, esso evidenzia anche il deficit di riconoscimento politico dello Stato per i produttori di sistemi alimentari virtuosi, e il tentativo di Campi Aperti di guadagnare visibilità e moneta politica. Molti dei prodotti realizzati in questi sistemi sono illegali (clandestini), nel senso che non hanno certificazioni statali o, in alcuni casi, i piccoli produttori evitano di pagare le tasse perché non se lo possono permettere. Tuttavia, sono prodotti “genuini”, dove la parola “genuino” in italiano evoca qualcosa prodotto con input locali e biologici per sistemi di distribuzione locali. Un altro effetto di Campi Aperti PGS è che si tratta di un protocollo che favorisce l’espansione dei beni comuni e agisce come un meme che può essere replicato in contesti diversi. Ad esempio, il PGS si è evoluto in una rete nazionale orizzontale di base chiamata Genuino Clandestino, che politicizza la pratica delle garanzie partecipative e promuove campagne come il movimento per impedire la vendita di terreni statali a favore di una politica di incentivazione delle cooperative sociali. Genuino Clandestino è quindi più che altro un movimento sociale fondato su mercati di garanzia partecipativa in luoghi diversi, dalla Sicilia al Sud, fino a Milano, Torino e la Val di Susa al Nord. Il livello nazionale è organizzato dai partecipanti alla rete Genuino Clandestino, che si riunisce ogni sei mesi. In queste assemblee semestrali si tengono incontri e workshop per confrontare esperienze e scambiare know-how, per discutere questioni strategiche di espansione, per fare un’analisi della situazione politica e sviluppare strategie di intervento. Infine, il meme della PGS è stato utilizzato per dare coerenza a un’iniziativa locale di cittadini critici che mettono in comune un’ampia gamma di esperienze.
In queste assemblee biennali si tengono incontri e workshop per confrontare esperienze e scambiare know-how, per discutere questioni strategiche di espansione, per fare un’analisi della situazione politica e sviluppare strategie di intervento. Infine, il meme PGS è stato utilizzato per dare coerenza a un’iniziativa locale di cittadini critici che ha messo in comune una serie di competenze e abilità (amministrative, legali, di campagna elettorale, ecc.) per aprire il primo negozio di produttori nel centro di Bologna, con un ampio ricorso al volontariato dei co-produttori. L’idea del negozio riunisce Campi Aperti con un altro movimento sociale alimentare, il GASi, basato sugli stessi principi ecologici e politici. È un esempio di boundary commoning in cui due o più sistemi entrano in relazioni sostenute per dare origine a un nuovo sistema di beni comuni. (De Angelis 2017: 265)
Praticare la sovranità alimentare con i beni comuni agroecologici
Questo articolo ha affrontato le basi di Campi Aperti, un commons impegnato nella produzione di un aspetto fondamentale della riproduzione immediata – cibo di alta qualità – in un modo che promuove la fiducia, la giustizia sociale e l’agroecologia. Tuttavia, Campi Aperti è di gran lunga più complessa nella sua struttura organizzativa interna e nelle questioni filosofiche e politiche di quanto qui riportato. Le sfide esterne da parte del capitale e dello Stato sono costantemente sotto esame, il che suggerisce che le loro attività (per esempio, le banche dei semi o il ciclo alternativo del denaro, il senso di benessere dei partecipanti, il senso di realizzazione della comunità) e i loro progetti non sono statici, piuttosto in costante co-evoluzione per raccogliere le sfide del loro ambiente.
Un aspetto che ci sentiamo di sottolineare nella conclusione è che i processi illustrati in questo articolo indicano una caratteristica generale dell’autonomia. L’autonomia è generata dal commoning autodiretto e dal processo di autoidentificazione dei beni comuni. Il commoning è un’attività sociale indotta da valori e orientata a obiettivi, tutti definiti da una comunità di commoners che si mettono in comune. Linebaugh (2008:279) Così il commoning è una modalità di produzione, distribuzione, consumo e governance in cui possono fiorire non solo la fiducia, ma anche la co-dipendenza, la cooperazione, la convivialità, il divertimento, l’amore e la cura. Il commoning nella riproduzione limita sempre la dipendenza che i commoners hanno dal circuito del capitale. Quanto più ampia è la sfera del commoning, o quanto più numerosi sono i gruppi di commoning collegati tra loro, tanto più alto è il grado di autonomia dal capitale. Una sfida proveniente dall’esterno, come una nuova legge o un regolamento comunale che mira a limitare le attività dei commons, non distrugge il commoning, che invece si limita a riorientare i propri obiettivi e a rivalutare le proprie strategie. Infatti, tutto ciò avviene all’interno del processo di comunione, quindi senza ostacolare l’autonomia dei beni comuni.
La nozione di autonomia ci aiuta a capire meglio come dare un senso alla dichiarazione di sovranità alimentare di Nyéléni nel contesto di Campi Aperti. Che cos’è la sovranità alimentare riferita a un corpo di popolani, se non l’autonomia di decidere il cosa, il come, il quanto, il quando e il perché della produzione, della distribuzione e del consumo? i Chiaramente, questa autonomia avviene in un contesto in cui ci sono forze che tentano di limitarla, in cui i mercati capitalistici e le politiche statali neoliberiste vanno nella direzione opposta. La sovranità in questo contesto implica anche la capacità di scendere a patti con lo Stato, nella misura in cui questi patti non mettono i chiodi nella bara dei beni comuni, ma permettono loro di sopravvivere e prosperare. Un esempio illuminante è il fatto che ogni agricoltore di Campi Aperti versa a un pool comune fino al 5% del proprio reddito e la maggior parte di questo denaro va a pagare le tasse di mercato al comune. Questa tassa di mercato limita in modo sostanziale l’autonomia di Campi Aperti? Questa era l’opinione di un piccolo gruppo di attivisti che hanno lasciato Campi Aperti. La loro idea di mercato alternativo non prevedeva alcun accordo con lo Stato, anche quando Campi Aperti ha negoziato un accordo che ha dimezzato la tassa. Nell’ambito del cosiddetto “accordo bene-comune” alcune attività sono state valorizzate. Le argomentazioni addotte erano che i mercati di Campi Aperti offrivano la migliore garanzia di prodotti di alta qualità certificati biologici e di locali più puliti dopo il giorno del mercato, poiché il riutilizzo e il riciclo dei materiali di imballaggio è incoraggiato tanto quanto il riciclo di piatti e bicchieri utilizzati sul posto. La tassa non è quindi un limite all’autonomia di Campi Aperti, ma un’assicurazione per la sicurezza delle loro attività che può essere ripetuta più volte. Nel corso del tempo Campi Aperti ha sviluppato un rapporto di lavoro con il Comune, in cui mantiene una certa distanza e rispetta le leggi di base che regolano i mercati, ma allo stesso tempo costringe il Comune a rendere conto delle proprie azioni. Alla domanda sulle condizioni per continuare a negoziare con il Comune, i membri di Campi Aperti hanno risposto semplicemente: “Autonomia. La nostra autonomia non è mai minacciata. Altrimenti ci rifiuteremmo di rispettare le regole” (De Angelis 2017: 302).
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