Autore: Alessandro La Palombara

  • Il Mercato è OnLine!

    Il Mercato è OnLine!

    Il Mercato OnLine, che trovate su www.campiaperti.it, è già aperto per ricevere gli ordini dei prodotti preferiti delle nostre campagne…

    Pubblicato da CampiAperti – Associazione per la Sovranità Alimentare su Venerdì 1 maggio 2020

  • Apre Camilla, l’Emporio di Comunità

    Apre Camilla, l’Emporio di Comunità

    Messo a punto lo spazio e valutato il test di dicembre, Camilla apre sabato 9 febbraio – dalle 10 alle 19.15  – la propria attività in via Casciarolo 8/D a Bologna (zona San Donato – fiera). Camilla è la prima concreta esperienza italiana del modello “food coop”, già sperimentato negli USA e in altri paesi europei. A Bologna declinato proprio come “emporio di comunità”.

    La giornata di sabato è la prima delle regolari aperture dell’emporio cooperativo, in cui i soci sono proprietari, gestori e clienti.  Tutti i soci troveranno in vendita cibo (e non solo) accessibile, sano e giusto. Un progetto innovativo di autogestione, partecipazione e condivisione di obiettivi e strumenti tra chi produce e chi acquista. E molto di più.

    Il percorso avviato a Bologna, prima dal gruppo di acquisto solidale Alchemilla e dalla rete di produttori di Campi Aperti, ha coinvolto in due anni un gruppo di persone che hanno discusso, studiato e progettato il proprio emporio, in modo da rispondere ai bisogni sia di chi lo rifornirà che di chi ci verrà a far la spesa. Camilla è infatti una cooperativa, un emporio e una comunità di persone. Queste persone sono parte di un’alleanza più ampia con altre realtà dell’economia solidale locali e nazionali, come Campi Aperti, la cooperativa di commercio equo e solidale ExAequo, la rete SOS Rosarno, la cooperativa Arvaia, Rimaflow solo per citarne alcune.

    Partecipa anche tu!!

    A un prezzo giusto e accessibile i soci potranno acquistare pasta e riso, anche sfusi, detersivi, prodotti per la cosmesi, dolci, conserve, verdure e formaggi, prodotti da aziende che rispettano territori e persone. Tutte le produzioni presenti sono biologiche e ambientalmente sostenibili, verificate direttamente dai soci mediante il meccanismo della “garanzia partecipata”, un elemento in più di forte caratterizzazione di Camilla come modello alternativo di distribuzione.

    Come stanno insieme prezzi accessibili e rispetto del lavoro? Riducendo gli imballaggi, privilegiando aziende che rispettano i territori e le persone, scegliendo i prodotti più vicini, studiando e programmando le filiere. E con un ricarico che serve solo a coprire le spese vive. L’emporio infatti è autogestito dai soci, tutti nella stessa misura, ciascuno dei quali per tre ore al mese sistema gli scaffali, fa le pulizie, gestisce la cassa, organizza attività. E può fare la spesa nel proprio emporio. Insieme a loro c’è un socio dipendente che cura tutti i giorni l’emporio. Il progetto potrà crescere ulteriormente quanti più soci si uniranno ai già 407 di oggi, nel fare acquisti e turni cooperativi, grazie ai quali si potrà ampliare l’orario di apertura e far partire tutte le attività progettate.

    In questa prima fase l’Emporio sarà aperto cinque giorni a settimana, con i seguenti orari:

    • Martedì, ore 16:30 – 20:45
    • Mercoledì: ore 17:30 – 21:45
    • Giovedì: ore 16:30 – 20:45
    • Venerdì: ore 16:30 – 20:45
    • Sabato: ore 10.00 – 16.45

    In questi orari è possibile ricevere informazioni sull’Emporio e compilare il modulo di adesione alla Cooperativa.

    Info  www.camilla.coop/informazioni-adesioni/

    Email info@camilla.coop

  • Biologico non è abbastanza? Hai un appuntamento con “Camilla”

    Biologico non è abbastanza? Hai un appuntamento con “Camilla”

    Biologico non è abbastanza? Hai un appuntamento con “Camilla”

    Le adesioni all’Emporio di Comunità “Camilla” crescono. Se volete saperne di più, i prossimi giorni sono densi di presentazioni in giro per la città, il calendario è piuttosto fitto. Il prossimo giovedì, dalle 21 in via Marzabotto 2, il primo degli incontri di Gennaio allo spazio sociale delle 20Pietre.

    Cos’è l’emporio autogestito e solidale “Camilla”?

    Si tratta di un punto dove trovi prodotti di elevata qualità (alimenti biologici, filiere locali, prodotti equo-solidali, sfuso di qualità, cosmesi e detergenti naturali) organizzato in forma cooperativa. E’ autogestito, tutti i soci della cooperativa dedicano una quota del loro tempo alla gestione dell’emporio ed è solidale, grazie alla collaborazione di tutti. Le spese di gestione dell’emporio sono ridotte all’osso e i prezzi di vendita sono più bassi, alla portata di tutte le tasche.

    Se non siamo scesi dal pero, provate a leggere le faq di Camilla. Altrimenti venite a conoscerci agli appuntamenti perché così ne parliamo di persona.

    Il prossimo Giovedì, quindi, porta la tua pietra per costruire l’emporio di comunità insieme alle 20 pietre!

  • Terra Persa

    Terra Persa

    Terra Persa, storie di land grabbing in Sardegna

    Il documentario è stato realizzato all’interno del progetto Apriti Sesamo finanziato dalla Cooperazione italiana allo sviluppo – Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.  OSVIC, CEFA>,OVERSEAS e MAMMUT FILM hanno cooperato insieme per realizzare un progetto volto ad indagare i problemi legati all’abuso speculativo del suolo, fenomeno oggi comunemente noto come land grabbing. Anche in Italia, questo nefasta pratica sta acquistando un peso rilevante. La Mammut Film, con la regia di Michele Mellara e Alessandro Rossi, ha realizzato un breve reportage documentaristico sull’aggressione al suolo della Sardegna. L’isola è colonizzata da operazioni speculative che tolgono una parte consistente del territorio della regione all’agricoltura. Basi militari, wind farms, impianti fotovoltaici e termodinamici realizzati senza alcun rispetto per il territorio ed in evidente antagonismo con le comunità locali. Terra Persa dà spazio alle voci dei comitati di protesta che combattono, in tutta l’isola, contro quest’aggressione spudorata. Le persone coinvolte nelle proteste argomentano le proprie ragioni con cognizione di causa, passione, amore. E la Sardegna, ferita, non si arrende.

  • The Men Who Made Us Fat

    The Men Who Made Us Fat

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    Documentario in tre puntate, purtroppo senza sottotitoli e in lingua originale, in cui l’autore ricostruisce il cambiamento nello stile di alimentazione e i fenomeni che lo hanno prodotto.

    Nel primo episodio si ricostruisce la storia dello sciroppo di mais con alto tenore di fruttosio, e di come a partire dagli anni settanta sia diventato uno degli ingredienti più diffusi nei cibi e nelle bevande industriali. Ma la cosa interessante, e strategica per l’industria agroalimentare, è che questo sciroppo non è solo più dolce dello zucchero, ma interferisce con un ormone, la leptina, che regola la sensazione di sazietà. Vale a dire che quando cominci a mangiare “cibo spazzatura” non smetti perché il tuo corpo non si sente sazio.

    https://vimeo.com/44450267

    L’endocrinologo Robert Lustig per primo riconobbe i rischi per il sistema cardiovascolare dello HFCS (High Fructose Corn Syrup), ma la sua teoria venne ridicolizzata e, al contrario, furono solo i grassi ad essere individuati come responsabili dell’aumento di rischio cardiovascolare. L’agroindustria ha risposto producendo cibi “salutari” a basso contenuto di grassi, senonché ha sostituito i grassi con maggiori quantità HFCS.

    Il secondo episodio ricostruisce la storia delle “porzioni giganti”, scoprendo che queste vennero introdotte da McDonalds dopo aver assunto David Wallerstein, il proprietario di un cinema di Cicago, che si era reso conto che alle persone non piaceva tornare a comprare, ma che erano disposte a spendere di più per delle porzioni più grandi.

    https://vimeo.com/44892521

    Nel terzo episodio si analizzano le strategie di marketing utilizzate dall’agroindustria per mantenere questi disordini alimentari.

    https://vimeo.com/45786862

  • Marzia, introducing the Campaign “Genuino Clandestino”

    Marzia, introducing the Campaign “Genuino Clandestino”

    Marzia, introducing the Campaign “Genuino Clandestino” during an event in Florence, Italy, November 2013

     

  • Campo libera tutti

    Campo libera tutti

    Campo libera tutti from GRUPPO FARFA on Vimeo.

    “Penso che in questo momento di crisi, di crisi economica, la terra è l’unico luogo in cui possiamo ritornare per ricostruire una nuova economia; e ogni governo alle generazioni future dovrebbe dire: – non abbiamo molto altro da darvi: abbiamo perso la capacità di darvi lavoro, sicurezza sociale e garantirvi un decente tenore di vita. Ma la terra ha ancora questa capacità, noi consegniamo le terre pubbliche agli agricoltori del futuro: provvedete a voi stessi.” (Vandana Shiva)
    Già dalla fine degli anni Novanta, in Puglia, un gruppo di contadini si incontrava sulla base di comuni spiriti, problematiche e intenti legati al lavoro della terra. Punto di riferimento e continuo stimolo per tutti noi era la Comune Urupia che costituiva (e costituisce tuttora) il punto d’incontro più elevato tra elaborazione teorica e sviluppi pratici tra tutte le esperienze (locali ma non solo) di approccio alla terra su basi libertarie.
    Nel maggio del 2012 l’esperienza pugliese incontra in Puglia quella nazionale di Genuino Clandestino.
    Da qui l’esigenza di documentare questo incontro e testimoniare il procedere di un movimento, quello di Genuino Clandestino, che si propone sempre più nelle sue idee e pratiche di produzione e consumo, non solo come un percorso autonomo e slegato dalle logiche del mercato e della produzione capitalista, ma come una delle alternative praticabili dinanzi all’attuale crisi economica.

  • Xylella Fastidiosa o Fastidiose Conseguenze dell’Agricoltura Industriale?

    Xylella Fastidiosa o Fastidiose Conseguenze dell’Agricoltura Industriale?

    Cosa succede nel Salento? Perché gli olivi si seccano? Perché quest’anno non c’è olio?

    Sgombriamo subito il campo da fastidiosi travisamenti e da imcomprensioni. Quest’anno c’è stata una scarsa produzione di extravergine soprattutto a causa delle conseguenze delle condizioni climatiche sull’allegagione dell’olivo e sull’andamento anomalo della riproduzione del normale e più comune parassita delle olive: la mosca delle olive (Bactrocera oleae).

    Questo non ha una relazione diretta con la xylella fastidiosa, il batterio presente nella sindrome del disseccamento rapido dell’ulivo: si tratta di due cose differenti. Eppure sembra esserci, anche qui, un filo rosso che lega i due fenomeni.

    Il filo rosso è la mancanza di una prospettiva ecologica nell’agricoltura industriale convenzionale e le conseguenze che un uso scellerato del pianeta stanno avendo sull’andamento climatico, sulla composizione dei suoli, sulla resistenza delle piante nei confronti di attacchi da parte di parassiti, di batteri e funghi.

    La situazione di indebolimento degli oliveti è legata allo “sfruttamento industriale” che fornisce, più o meno volontariamente e continuamente “fattori di stress” alle piante, ma che spesso opera un vero e proprio “biocidio” nei confronti di un ambiente costretto a sorbirsi pesticidi, diserbanti, antimicotici sempre “più efficaci”.

    Guardate brevemente una parte di questa conferenza del Prof. Xiloyannis dell’Università della Basilicata.

    Xiloyannis afferma che

    Abbiamo consumato tutta la sostanza organica? Sostanza organica vuol dire CO2, quindi […] una buona parte di CO2 atmosferica deriva dal suolo agricolo

    La gestione del suolo, da questo punto di vista, è una discriminante fondamentale della sostenibilità agricola. Una agricoltura ecologica deve accumulare sostanza organica nei suoli; deve ridurre la quantità di CO2 emessa in atmosfera ed avere un saldo positivo, cioè accumulare CO2 nei suoli sotto forma di sostanza organica.

    L’accumulo di sostanza organica nei suoli – è dimostrato – a lungo andare migliora la fertilità del terreno, ma implica una diversa, e spesso più complicata, gestione del suolo.  La sostanza organica è una benedizione per le piante e permette, grazie anche ai microrganismi presenti, di elaborare quelle sostanze con cui si nutrono e si “curano” e con le piante affrontano i fenomeni di stress (come la Xylella fastidiosa).

    Siamo tornati alla Xylella fastidiosa, che è stata accusata forse ingiustamente di essere la sola e unica responsabile della malattia che fa morire gli olivi in Salento.  Si, perché quello del disseccamento rapido, a giudizio di alcuni, sembra essere più una sindrome, cioè qualcosa di non riconducibile ad un unico fattore. L’analisi dei campioni di olivi infetti inviati all’autorità, infatti, ha individuato una molteplicità di fattori come probabili cause o concause del disseccamento rapido.

    Gli olivi “erano generalmente colpiti da un insieme di organismi nocivi comprendenti X. fastidiosa, diverse specie fungine appartenenti ai generi Phaeoacremonium e Phaemoniella, nonché Zeuzera pyrina (falena leopardo)”(1).

    Nel frattempo la comunicazione politica, però, ha operato come se la constatazione della presenza della xylella di alcuni dei campioni inviati  fosse la conferma dell’origine batteriologica del disseccamento rapido. Per eradicare questo batterio (xylella) si è messo a punto un programma di desertificazione dei suoli senza precedenti. Guardate cosa dice, ad esempio, il commissario Silletti – Commissario delegato per l’attuazione degli interventi,  in un convegno del 10 Aprile a Brindisi:

    “Il vero problema saranno le piante infette: si passerà all’eradicazione con l’Arif (Agenzia regionale per le attività irrigue e forestali) e si dovrà passare all’eradicazione delle piante cosiddette “ospiti”, quelle cioè che vengono considerate sensibili e, quindi, più facilmente infettabili dal batterio.- ha dichiarato Silletti durante l’incontro – Si tratta soprattutto di piante ornamentali, come l’oleandro e la malva, quindi molto diffuse nelle nostre zone. Mentre per queste si passerà all’eradicazione, solo per le querce si dovranno attendere prima gli esami e poi, se necessario, le estirpazioni dal terreno.” (2)

    Succede contemporaneamente che Ivano Gioffreda, alcuni di voi lo ricorderanno presente all’edizione di Genuino Clandestino di Bologna, pubblica alcuni video su youtoube e finisce anche su rai3.

    Gioffreda sostiene, insieme ad alcuni agronomi e professori universitari, che interventi di buona pratica agricola siano un buon rimedio per combattere efficacemente il fenomeno. Un po’ di poltiglia bordolese, una buona potatura invernale, il sovescio, un ammendante e un sostanziale aumento di sostanza organica nei suoli, le piante mostrano una risposta buona risposta vegetativa.

    A onor del vero, le ricerche scientifiche sulla Xylella sono tuttora in corso, e alcuni sostengono che il “riscoppio” vegetativo potrebbe essere una fase (la pianta reagisce attraverso vasi linfatici non attaccati dal batterio) di un percorso che porterà comunque al disseccamento della pianta.

    Se la scienza non possiede certezze al momento, la politica e l’apparato giudiziario reagiscono come possono, interpretando il “principio di precauzione” in un modo quantomeno particolare. Alcuni giorni prima del convegno citato,  ad esempio, il commissario Silletti (incaricato dalla regione Puglia di stilare un piano di intervento) era stato sentito da un procuratore della repubblica – come leggiamo sulla Gazzetta del Mezzogiorno

    “…per accertare l’origine e la diffusione del batterio killer che sta uccidendo gli ulivi salentini e se la strategia messa in atto dalla Regione per contrastare l’infezione abbia una valenza scientifica. Il reato ipotizzato nell’inchiesta è di diffusione colposa di una malattia delle piante. Nel chiuso della stanza del pm Mignone, co-titolare dell’inchiesta insieme al pm Roberta Licci […]” (3)

    Il piano d’intervento, infatti, sembra aver dato origine ad un decreto di lotta obbligatoria, elaborato inizialmente dalla regione Puglia, poi diventato nazionale e presentato alla Commissione Europea; che lo ha adottato e che ha quindi validità legale. Va, cioè, rispettato e fatto rispettare. Ma questo avviene in un contesto in cui la scienza ad oggi non ha ancora accertato se, effettivamente, il batterio Xylella fastidiosa è responsabile del disseccamento delle piante.

    Ma andiamo oltre, nelle pieghe di tutta questa questione cominciano ad emergere dei vantaggi, delle occasioni di altro tipo. Ci sono persone, ad esempio, che tutto sommato trovano vantaggiosa l’eradicazione delle piante magari per fare speculazione edilizia, li dove c’era la protezione delle piante centenarie (cosi, ad esempio, titola un quotidiano L’altra faccia della xilella: “Ulivi infetti? Abbattiamoli e costruiamoci una casa.).

    Ma la questione della protezione delle piante di olivo centenarie sembrerebbe ostacolare anche l’olivicoltura di tipo industriale, che insegue costi minori, da realizzare con minore ricorso alla manodopera e maggiore meccanizzazione (piante a a spalliera, macchine scavallatrici, ecc.).  Per l’agroindustria italiana, forse, la “peste dell’olivo” potrebbe essere un’occasione per “ristrutturare”, “riconvertire” oliveti che hanno costi di produzione più alti, che quindi non riescono a stare sul mercato visti i prezzi della materia prima nelle borse merci. Una olivicoltura alla spagnola, spalliere, macchine scavallatrici, costi inferiori.

    In molti guadagnerebbero da questa riconversione, ma non gli agricoltori, che si ritroverebbero nella solita gara al ribasso fatta sulla loro pelle.

    Che il mondo dell’olivicoltura industriale vada cercando una strada di questo tipo emerge con chiarezza dalle politiche di governo; governo che ha approvato recentemente un Piano Olivicolo Nazionale dove si dice chiaramente che l’obiettivo è quello di perseguire “una politica di riduzione dei costi”.

    “Una politica di riduzione dei costi passa per un complesso di interventi che prevedono:
    a) la meccanizzazione delle operazioni di potatura;
    b) la meccanizzazione delle operazioni di raccolta (agevolatrici o meccanizzazione,…)
    c) la razionalizzazione degli impianti, dei sesti di impianto e delle forme di allevamento, per favorire le operazioni di manutenzione del terreno e le operazioni colturali; […]”

    Ma chi sono gli altri portatori di interessi nei confronti dell’abbattimento degli olivi secolari salentini?

    La Xylella non è un parassita nuovo, ha già causato danni in giro per il mondo sulla vite, sugli agrumi, ma anche su altre specie ed era stata oggetto di un convegno organizzato dallo IAM  di bari nel 2010 (allora non si erano ancora presentati casi di xylella), in cui pare siano state fatte delle sperimentazioni con un ceppo del batterio (il “multiplex”) diverso da quello trovato poi a partire dal Salento, negli ulivi pugliesi (“pauca”).

    “Come è noto, le indagini si concentrano sulla possibilità che il convegno sulla Xylella organizzato dallo Ististito Agronomico Mediterraneo (IAM) di Bari nel 2010 e le sperimentazioni attuate in quella sede possano essere state la fonte fondamentale del contagio. Le indagini sono in corso e certamente forniranno informazioni utili. Certo, sappiamo che il contagio ha colpito il sud Salento, e nessun caso è stato riscontrato nel barese – circostanza che è quanto meno difficile da spiegare se si sposa l’idea del contagio partito da Bari.” (4)

    Lo stesso istituto precisa che il batterio è stato riscontrato su materiale vegetale proveniente dal CostaRica, di questi ultimi giorni l’individuazione del batterio anche in Francia su materiale olandese proveniente dal paese sudamericano.

    La Monsanto, chiamata in causa dalla teoria del complotto fin dall’inizio, è “colpevole” per il momento di avere una società in Brasile denominata Alellyx. La Alellyx è una società che si occupa di genomica e che tra i suoi progetti si aspetta un ritorno economico dal sequenziamento proprio della xylella fastidiosa per realizzare piante OGM resistenti o altri rimedi. La Monsanto, accusata di aver provocato l’infezione per vendere materiale vegetale resistente, ha smentito la notizia che in Israele fossero pronti ulivi OGM resistenti al batterio, però non si può dire che la loro ricerca non preveda in futuro la produzione di varietà geneticamente resistenti o la messa a punto di altri metodi di controllo del batterio, anche perché la società Alellyx fa proprio questa cosa qui, e lo dichiara pubblicamente (anche se non per l’olivo).

    Se avete avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, torniamo all’agro-ecologia e al filo rosso che lega la xylella, il TTIP, Genuino Clandestino e la Monsanto (intesa qui come rappresentante simbolico dell’agricoltura industriale). Viene da chiedersi cosa comporti la strategia economica delineata dal TTIP nei confronti di fenomeni come questo, di mondializzazione dei parassiti, delle virosi e delle micosi di cui si parla molto degli ultimi tempi.

    Se specie vegetali, cibi e merci in genere viaggiano con più facilità tra i continenti per il fenomeno della globalizzazione, non ci dobbiamo forse aspettare una intensificazione di questi fenomeni? Se la libera circolazione di queste “merci” pone sfide economiche inique, non sarà che questo comporterà un maggiore inaridimento dei suoli, perché i contadini si troveranno a dover spingere maggiormente i loro terreni per produrre di più e a prezzi più bassi? Se la distanza che le merci percorrono aumenta, non va questo in direzione di una maggiore quantità di CO2 nell’aria? Ha senso tutta questa rincorsa alla competitività per chi coltiva la terra o non è forse meglio cercare nella relazione diretta tra chi produce e chi consuma quei prodotti?

     

  • PRANZO SOCIALE (BIO) A LÀBAS

    PRANZO SOCIALE (BIO) A LÀBAS

    volantino Pranzo SOciale 22 febDomenica 22 Febbraio, nell’ex caserma militare di via Orfeo 46, sottratta all’abbandono e alla speculazione edilizia, ci sarà il pranzo sociale di LABAS con i prodotti biologici dei produttori di CampiAperti. Tra zuppe fumanti, insalate dai mille colori e crostate artigianali “in tavola” ci saranno i nostri valori e i nostri progetti.

    • Una socialità genuina, antirazzista, antifascista ed antissessita, svincolata dalla mercificazione delle relazioni;
    • l’autofinanziamento, perché il ricavato sarà destinato al progetto di un ” MERCATO A RIFIUTI ZERO”, per non restare inquieti di fronte alle crisi ambientali, ma praticare modelli alternativi di azione;
    • la cooperazione tra tant* e divers*, perché lo stesso pranzo sarà organizzato insieme ai/lle tant* contadin* dell’associazione Campi Aperti che il mercoledì pomeriggio danno profumo al piazzale “Irma Bandiera” con i loro prodotti biologici, genuini e clandestini;
    • il rifiuto della logica delle grandi opere e dei grandi eventi come F.i.co. o l’Expo, fatti solo per cementificare, affamare il pianeta, sfruttare chi ci lavora precariamente e gratuitamente, arricchire i soliti noti.

    Prenotate il vostro posto a tavola, per un pranzo all’insegna dei mille volti di una realtà ribelle.

    Per prenotazioni (non basta “partecipare” all’evento fb): cell 340.6677186 (Alessandro), mail: labas.bo@gmail.com

    Nel pomeriggio proiezioni, attività per bambin*, musica e balli. Il programma è in costruzione e sarà aggiornato nei prossimi giorni.

  • Il TTIP, De Castro e la mosca

    Il TTIP, De Castro e la mosca

    Il TTIP  non aiuterà l’agricoltura contadina, né la sovranità alimentare, ma solo le multinazionali. Alcuni giorni or sono, infatti, Fairwatch ha pubblicato un interessante rapporto dal titolo “Contro il TTIP, con i piedi per terra” in cui si analizzano le ricadute probabili dell’accordo di libero scambio sull’agricoltura, sul cibo e la sovranità alimentare, a discapito degli annunci entusiastici e propagandistici che circolano.

    Leggendo il rapporto Fairwatch vien facile immaginare le ricadute e le tipologie di organizzazioni economiche che trarranno i maggiori benefici da una più facile circolazione di merci  tra le due sponde dell’oceano.  Il TTIP viene propagandato agli agricoltori come un accordo vantaggioso, in grado di rilanciare la produzione primaria e, in special modo per il settore oleicolo, vinicolo e quello marchi dop, igp, ecc., di offrire maggiori mercati di sbocco per il prodotto italiano.

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    Così De Castro, in un articolo rilasciato ad Italia oggi, chiarisce in che cosa, secondo lui, consisterebbe questo vantaggio per l’agroalimentare italiano: “La bilancia delle esportazioni pende dalla parte europea essenzialmente grazie a vino, pasta, conserve, insaccati, olio. Esportiamo produzioni ad alto valore aggiunto dal Sud Europa, mentre importiamo materie prime, componente principale dei sistemi produttivi del Nord, in parte anche di quello tedesco. Ne consegue che i paesi del Sud hanno convenienza ad avere un atteggiamento offensivo per l`agroalimentare…“.

    Il TTIP, infatti, sarebbe vantaggioso per l’industria agroalimentare perché consentirebbe maggiori esportazioni e più facili importazioni di prodotto. Da diversi anni a questa parte, infatti, la crescita delle esportazioni agroalimentari “italiane” comporta parimenti la crescita delle importazioni di materia prima, mentre la materia prima nazionale è costretta a prezzi che non coprono i costi di produzione.

    E’ l’industria agroalimentare, e non la produzione primaria, ad avere interessi e vantaggi da un accordo di libero scambio. Una maggiore facilità di acquistare materia prima sul mercato internazionale è, per l’industria agroalimentare (industria di sua “natura” transnazionale), che usa trasforma e rivende materie prime che non produce, la possibilità di ricontrattare al ribasso i prezzi su tutto lo scenario internazionale. Questa revisione al ribasso dei prezzi ha per l’agricoltura contadina nazionale un effetto ancor più devastante e deprimente della già difficile situazione attuale.

    Prendiamo il caso dell’olio d’oliva, il quantitativo d’olio extravergine d’oliva prodotto in Italia non è sufficiente a coprire il consumo interno ai confini dello stato. A fronte di una produzione che si attesta mediamente tra le 400 mila e le 500 mila tonnellate, il solo consumo interno si aggira tra le 600 e le 700 mila tonnellate di extravergine. Ma allora, perché i produttori hanno difficoltà a vendere il proprio prodotto sul mercato locale?

    La presenza nella GDO di prodotto a prezzi bassi ne è la causa prima e in molti scelgono il prodotto della GDO in offerta o di prezzo. Per ottenere questi prezzi particolarmente concorrenziali, però, l’industria agroalimentare non compra necessariamente sul mercato locale, ma principalmente in Spagna, Tunisia, Grecia e rivende sia in Italia e sia all’estero. La conseguenza è che il prodotto italiano, che non sarebbe sufficiente neanche per il mercato interno, resta invenduto o venduto sotto-prezzo.

    Secondo il ministro De Castro, gli olivicoltori italiani (grazie al TTIP) potranno sperare di vendere il proprio prodotto negli Stati Uniti (non in Italia dove non sarebbe sufficiente neanche per una metà degli italiani): la terra delle opportunità. Gli olivicoltori italiani che volessero vendere direttamente il proprio prodotto, secondo il ministro, dovrebbero andare a vendere negli Stati Uniti e lasciare il campo libero in casa all’industria agroalimentare, oppure svendere la produzione all’industria a prezzi internazionali.

    La crescita del “made in Italy” nel comparto dell’olio extravergine d’oliva, in altre parole, da tempo ormai, utilizza prodotto importato dall’estero, confezionato per essere rivenduto. Mentre, la presenza sul mercato interno di merce più economica deprezza il prodotto locale ad un valore non remunerativo per il prodotto nazionale. L’agricoltura contadina subisce così la concorrenza sleale dell’industria agroalimentare in casa e, per giunta, dovrebbe anche liberare il campo vendendo all’estero, oppure chiudere baracca e burattini.

    Da anni, a fronte di una crescita continua delle capacità commerciali dell’industria agroalimentare, la produzione olivicola ha avuto un andamento decrescente e molti oliveti versano in stato di abbandono; stato di abbandono che, tra parentesi, è anche uno dei motivi (oltre all’andamento climatico) dell’eccezionale ondata di mosca delle olive che ha colpito gli oliveti italiani nella scorsa annata.

    Per rendere economicamente vantaggiosa la produzione interna, caratterizzata da un deficit competitivo legato a costi di produzione maggiori e prezzo di partenza più alto degli altri, ci si è sperticati a spingere gli agricoltori sulla qualità, dop, igp e certificazioni biologiche, con l’obiettivo di creare una nicchia di mercato per l’olio italiano e orientare i produttori verso il mercato estero. Ma questa politica commerciale illusoria (il presso medio dell’olio esportato verso gli Stati Uniti nel 2013 è stato di € 3,74 al kg) non ha fatto altro che continuare a favorire le multinazionali dell’olio, a scapito degli olivicoltori, tant’è che la produzione olivicola di casa non solo non è cresciuta, ma si è contratta progressivamente fino ad arrivare al minimo storico di quest’anno, complice la mosca e l’andamento climatico.

    L’olio prodotto in Italia, grazie al TTIP, forse sarà venduto in giro per il mondo – magari sottocosto e a spese dei piccoli produttori – ma solo per pubblicizzare il marchio italia e attrarre i consumatori d’oltre oceano con l’effetto di ridare smalto alle multinazionali dell’olio, imprese transnazionali interessate solo all’acquisizione del marchio italia.

    Ma perché produrre olio in Italia costa più che dalle altre parti? Il costo di produzione non è una variabile solo esterna: la forma che l’organizzazione olivicola ha, pone condizioni che fanno la differenza sul costo di produzione. Far cadere le olive sui teli, raccogliere a mano, con abbacchiatori, scuotitori o macchine scavallatrici produce un prodotto che ha qualità differenziate e costi eterogenei. Il lato esterno del costo di produzione è però molto importante, e se ci si confronta sul mercato internazionale, questi fattori giocano un ruolo cruciale nella competizione. Costi di sicurezza, energetici, tasse, fattori ambientali concorrono a formare il costo finale, senza che l’olivicoltore abbia il potere di far pesare queste differenze.

    Se questo è il quadro in cui si muove l’olivicoltura italiana, o ci si autosfrutta e si produce per l’industria agroalimentare rincorrendo un aumento di produzione a fronte di un contenimento dei costi “per restare sul mercato”, sfruttando e mettendo in pericolo se stessi e i beni comuni con il rischio dell’inquinamento, del danno ambientale da pesticidi e concimi, oppure si sceglie una produzione adeguata, rispettosa e sostenibile per l’ambiente e finalizzata alla filiera corta, alla vendita diretta nel territorio, il più prossimo possibile.

    Dal punto di vista della sostenibilità ambientale e della sovranità alimentare, quindi, la produzione locale di olio dovrebbe crescere, almeno fino a coprire il fabbisogno interno. Bisognerebbe puntare ad aumentare la produzione oleicola, costruendo condizioni di vantaggio per il prodotto locale venduto sul mercato interno, anche apponendo, li dove fossero necessarie, barriere tariffare e organizzative in grado di regolare i prezzi su un giusto grado di remunerazione del prodotto locale. Se la produzione deve crescere c’è bisogno che il processo sia remunerativo e il TTIP va essenzialmente nella direzione opposta.

    Ecco perché il TTIP non aiuterà gli olivicoltori italiani!

     

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  • “La favola degli OGM” che non sono presenti in Europa

    “La favola degli OGM” che non sono presenti in Europa

    la_favola_degli_ogm_copertiChe in Europa non siano presenti  prodotti OGM per alimentazione umana ed animale, coltivazione ed altri usi è è una favola a cui bisogna smettere di credere.  Diverse piante (Colza, Mais, Cotone, Barbabietole, Soya e Tabacco – per un elenco delle varietà autorizzate vedere http://www.leziosa.com/elenco_ogm.htm) sono già presenti da anni e sono state autorizzate dall’EFSA. L’idea che il TTIP apra la strada agli OGM e la lotta che ne consegue ha un effetto rassicurante sullo stato attuale dell’agricoltura europea, ma lo stato attuale delle cose non è per niente rassicurante!

    Come riporta il sito del EFSA (l’autorità europea che si occupa dell’autorizzazione degli OGM in europa), solo tra il 2007 e il 2008 ci sono state più di 25 richieste di rinnovo delle autorizzazioni da parte di Monsanto, Bayer CropScience, Syngenta Seeds, Agrigenetics, Ciba-Geigy, Seita.

    “La favola degli OGM” è un libro che informa sugli effetti degli OGM a partire dai risultati della ricerca indipendente, aspramente combattuta dai produttori di sementi OGM, in primis la Monsanto. Daniela Conti ci racconta un percorso di ricerca ventennale proprio ora che c’è più bisogno di essere informati perchè i prodotti OGM sono già qui, nelle cose che mangiamo e che coltiviamo.

    Il libro è molto interessante e riporta anche una “rassegna di alcune tra le principali ricerche indipendenti che hanno evidenziato effetti negativi degli OGM sulla salute degli animali da esperimento e sull’ambiente (e gli effetti di queste ricerche sui loro autori)”.

    Maggiori informazioni sul sito dell’editore http://www.alkemiabooks.com/it/la-favola-degli-ogm.html

    Dr. Daniela Conti
    Biologa, esperta di genetica molecolare, da oltre 20 anni collabora con alcune tra le maggiori case editrici scientifiche per la revisione e la traduzione di testi scientifici a livello universitario su temi quali biologia, genetica, biotecnologie, ecologia, psicologia e neuroscienze. Ha curato, fra gli altri, autori come Barry Commoner, E. O. Wilson e Michael Gazzaniga, o premi Nobel come Paul Berg. Ha svolto attività di ricerca e didattica presso l’Istituto di Genetica dell’Università di Bologna. Svolge una intensa attività di divulgazione scientifica e di organizzazione di seminari e conferenze per condividere le scoperte della biologia contemporanea soprattutto con i giovani.
    È curatrice del sito web: www.complessita.it

     

  • Non sono belle sorprese?!

    Non sono belle sorprese?!

    l'imu in..dietro??

     

    Le sorprese del governo Renzi sembrano non finire mai. Purtroppo, non sono belle sorprese. Secondo la volontà del governo Renzi,  la recente decurtazione di 350 milioni del fondo di solidarietà ai comuni verrà compensata da agricoltori, contadini e proprietari di terreni,

    L’esenzione IMU per i terreni agricoli, in Italia,  viene rimodulata e dipenderà dall’altitudine dei Comuni ( inteso come casa comunale) in cui sono presenti, con tariffazioni diverse già a partire dal saldo  con scadenza 16  dicembre 2014.

    E pensare che questo governo, pubblicamente ha sempre detto, che non avrebbe nel modo più assoluto tolto un centesimo dalle tasche degli italiani. Con il decreto del Ministero delle Finanze di imminente emanazione, in attuazione dell’articolo 22, comma 2 del dl 66/2014 il prode Matteo limiterà l’esenzione IMU per i terreni agricoli, diversificando tra quelli posseduti da
    coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali. Nel dettaglio: nei Comuni sopra i 600 metri i terreni continueranno a non pagare l’IMU, al di sotto di questa altitudine sui terreni non posseduti da agricoltori professionali e coltivatori diretti bisognerà pagare l’imposta comunale, mentre sotto i 281 metri pagheranno tutti, pur con tariffazioni diverse. L’esenzione Imu per i terreni agricoli, che
    fino a oggi copriva 3.524 comuni italiani – quasi la metà del totale – verrà cancellata con un colpo di spugna. Unico criterio di delimitazione è l’altitudine del centro comunale, non quella dei terreni e non vengono piu considerate  esenti  le zone svantaggiate con terreni impervi a altitudine inferiore.

     

    ufficio stampa campagna contadina

  • CampiAperti vista da Alessia Melchiorre

    CampiAperti vista da Alessia Melchiorre

    2014-10-08-17Virgilio, padre delle Georgiche, sarebbe stato certamente fiero di loro: un gruppo di contadini a cui piace
    coltivare senza avvelenare il terreno e vivere del prodotto del proprio lavoro.
    Campi Aperti è un’associazione per la sovranità alimentare come recita la Carta dei Principi . Si tratta, cioè, di un incontro tra produttori e consumatori che rigettano la capitalizzazione dell’attività agricola e promuovono la coltivazione biologica e il commercio a filiera corta favorendo non solo il rispetto della terra, grazie alla preservazione della territorialità e stagionalità dei prodotti, ma anche le relazioni tra chi produce cibo e chi lo consuma, senza intermediazioni di alcun tipo. I mercati si tengono dal martedì al venerdì in quattro centri sociali di Bologna: il VAG61, il LÀBAS, l’XM24 e presso la Scuola di Pace (inoltre, con l’assessore all’Economia e promozione della città Matteo Lepore, si sta cercando di aprirne un altro in Piazza Puntoni).
    L’associazione, nata ufficialmente nel 2002 a Bologna, ha un Regolamento relativo ai modi di produzione, reperimento delle materie prime, autocertificazione dei prodotti ed etica del lavoro.
    Ma ciò che la rende un’organizzazione democratica è l’assemblea di gestione del mercato che si tiene con cadenza bimestrale per autoconvocazione: oltre ad avere funzione di vigilanza delle aziende agricole aderenti, riunisce i contadini e i consumatori interessati in un confronto su questioni logistiche, sulle regole di gestione, sull’ammissione di nuovi prodotti e/o produttori e altre necessità. Quando ci sono decisioni da prendere, dopo innumerevoli discussioni (che si sviluppano attorno ad un tema su cui ognuno può intervenire per alzata di mano durante le riunioni o nelle mailing list), si utilizza il metodo del consenso e, se non si trova l’accordo, si procede alla votazione per maggioranza dei presenti (in 12 anni solo 3-4 volte). “Il voto per maggioranza è una sconfitta perché crea una minoranza;” ammette Domenico Fantini, che si occupa di amministrazione per Campi Aperti, “perché significa che non siamo riusciti ad arrivare ad una conclusione comune”. Ogni assemblea viene, inoltre, puntualmente verbalizzata e pubblicata sul sito.
    L’esperimento ormai consolidato di garanzia partecipata permette a tutti i soggetti coinvolti, dai produttori ai consumatori, di controllare la qualità e la provenienza dei prodotti sul banco. È uno strumento utilissimo per individuare i furbi che lucrano su merci che non sono di produzione propria ma di chissà quale origine; ognuno è responsabile dell’affidabilità di ciascuno.
    Moltissime sono le iniziative che spesso si affiancano e collaborano in un tale ambiente di reciproco scambio: laboratori di teatro e musica per bambini, conferenze, spettacoli, libri e anche un giornale dell’associazione.
    Infine c’è Genuino Clandestino, campagna avviata subito dopo la regolarizzazione dei mercati avvenuta attraverso dei bandi comunali nel 2010, che ha l’obbiettivo di denunciare le norme che rendono equiparabili i prodotti trasformati dai contadini a quelli realizzati in grandi industrie alimentari e che dichiarano i primi fuorilegge poiché non rispettosi dei vincoli igienico-sanitari validi per qualsiasi attività di produzione a prescindere dall’entità della produzione e dalle modalità di lavorazione (per intenderci: il pane o le marmellate fatte in casa non potrebbero essere vendute ai mercati). Non avendo i mezzi necessari a dotarsi di un laboratorio convenzionato, i clandestini (aggettivo non casuale) hanno dunque deciso di indicare nei loro mercati quali sono i prodotti a norma della legge italiana e quali no, ma comunque genuini e affidabili (circa un 20% sono banditi). L’iniziativa ha riscosso numerose adesioni da parte di altre realtà agricole, in tutta Italia, aventi gli stessi problemi tanto da farne un movimento nazionale per l’agricoltura biologica e contadina che annualmente si riunisce per aggiornarsi, crescere e creare nuovi progetti comuni.
    Oggi si fa un gran parlare del biologico tanto che anche grosse multinazionali del cibo si avvalgono di questa parola (vedasi il colossale progetto F.I.CO, con l’obbiettivo di relegare la dimensione contadina in uno spazio ristretto e cementificato ); <> dichiara Michele Caravita, uno dei fondatori di Campi Aperti, in occasione dell’ultima riunione Genuino Clandestino tenutasi a Pesaro.
    Il punto cruciale sul quale si va sempre a cadere è la questione prezzi; sono alti e non proprio accessibili a tutti (specialmente agli studenti fuori-sede, tipico esempio di consumatore squattrinato) e sembra che ci si debba sempre dividere tra chi può permettersi un certo stile di vita e chi no. Filippo, produttore, risponde: << la domanda è come mai i prodotti Coop costino così poco; noi ci riuniamo periodicamente per stabilire dei prezzi che possano consentire il sostentamento del contadino e contemporaneamente soddisfare le esigenze “economiche” del maggior numero di persone possibile>>. Si tratta inoltre di invitare il consumatore a ragionare su quello che mangia:<< Dietro i nostri prodotti non c’è sfruttamento del lavoro e della terra>>. E La risposta di Domenico chiarisce: <<È il governo che deve favorire le condizioni per permettere allo studente di poter acquistare biologico. Campi Aperti parte dalla macro-area dell’alimentare ma va a toccare inevitabilmente tutti gli aspetti sociali della vita delle persone>>.
    Quali sono i numeri di Campi Aperti? Si parla di un centinaio di aziende agricole tra i produttori; 200-500 persone per mercato tra coproduttori e clienti; altre 200 coi GAS (Gruppi Acquisto Solidale) di Marzabotto.
    La crescita del fatturato totale dei mercati è stata imponente: dai 200mila euro di due anni fa agli 800mila di quest’anno. Cifre che attestano che un altro modello di economia è possibile, funziona perché basato sulla fiducia tra le persone. La domanda aperta che resta è: come cambierà Campi Aperti se dovesse ingrandirsi ancora? Di certo non si può che vedere come qui si vada ben oltre gli ideali georgici di vita: Carlo, Germana e Michele, i fondatori, hanno creato un modello di organizzazione politica, economica, sociale e culturale “fuori dal comune”, cioè fuori dalle ordinarie strutture istituzionali di ciascun ambito, ma sempre all’interno di regole ben precise e condivise. E in un Paese con un governo non democraticamente eletto come il nostro, Campi Aperti si presenta come una realtà nella quale l’esercizio della democrazia, intesa come regime fondata sull’opinione, sul confronto tra le opinioni, sulla formazione di un’opinione comune (come vorrebbe il buon Tucidide), è tale da essere paragonabile a quello delle poleis greche.
    Alessia Melchiorre

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  • Il Ministro dell’agricoltura e la carne agli ormoni

    Il Ministro dell’agricoltura e la carne agli ormoni

    1394191_549959735078877_327214075_nNell’audizione sul TTIP il ministro Martina ha affermato che per quanto riguarda gli effetti del Trattato sul comparto agroalimentare questo non comporterà modificazioni sul livello di tutela in materia sanitaria e fitosanitaria e “chiarisce” che

    “il mandato prevede espressamente “il diritto delle parti di valutare e gestire il rischio conformemente al livello di tutela che considera appropriato, in particolare quando le pertinenti prove scientifiche sono insufficienti”.

    In sostanza – continua il ministro Martina – è sancito il diritto di precauzione affinché nel mercato europeo non entrino prodotti “a rischio” come per esempio la carne con gli ormoni o il pollo trattato con la clorina. Su questo punto il mandato è tassativo e così la posizione presa dalla Commissione negli incontri con i negoziatori statunitensi. L’accordo non comporterà quindi alcuna riduzione della sicurezza alimentare di cui godono oggi i cittadini europei per facilitare le imprese o favorire l’arricchimento delle multinazionali, in quanto tutte le garanzie verranno mantenute e, semmai, migliorate.

    In realtà la frase riportata dal ministro è stata decontestualizzata: la frase originale era un’altra.

    “Provisions of the SPS chapter will build upon the key principle of the WTO SPS Agreement, including the requirement that each side’s SPS measure be based on science and on international standards or scientific risk assesment, while recognising the right for the Parties to appraise and manage risk in accordance with the level of protection that each side deems appropriate, in particular when relevant scientific evidence is insufficient, but applied only to the extent necessary to protect human, animal or plant life or health and developed in a transparent manner without undue delay” (http://eu-secretdeals.info/upload/TTIP-mandate_M-Schaake_website.pdf)

    L’Europa è stata già sanzionata nel 1998 dal WTO per il bando della carne agli ormoni in quanto le “prove scientifiche” fornite erano a giudizio della commissione insufficienti. Nel 2005, poi, l’accordo SPS  (Sanitary and Phitosanitary Agreement) ha stabilito che la restrizione al libero commercio per motivi di tutela della salute “deve dimostrare una connessione diretta tra la sostanza bandita e il rischio paventato” (http://www.issm.cnr.it/demetrapdf/boll_7_2005/Pagine%20da%20demetra_imp%207_bevilacqua.pdf), deve cioè dimostrare una connessione diretta tra la presenza di ormoni e la contrazione di malattie. Non è possibile, in altre parole, secondo il trattato applicare il principio di precauzione quando non ci sono prove evidenti, ma solo quando ci sono degli indizi che non costituiscono una prova evidente e solo limitatamente a proteggere la vita e la salute di uomini, animali e piante   Questo tipo di situazione è proprio ciò che viene definito nel trattato una “barriera non tariffaria” al libero scambio dei prodotti.

    Detto in parole povere prima vi mangiate la carne agli ormoni, se poi ci sono delle rilevanti evidenze scientifiche (ancorché insufficienti) potrete applicare il principio di  precauzione, ma solo per un certo periodo di tempo.

    Più avanti nel corso dell’audizione il ministro Martina, infatti, contraddicendo ciò che ha appena affermato e parlando solo dei vantaggi che potrebbe avere l’agricoltura italiana, dice che “Nel negoziato, infatti, si tende a superare le barriere non tariffarie che impediscono l’accesso al mercato USA dei prodotti per motivazioni sanitarie (come avviene ad esempio nei casi della Bresaola, la cui esportazione dall’Italia è vietata dal 2001 a causa dei provvedimenti statunitensi vigenti nei confronti della BSE, o dei prodotti ortofrutticoli, per cui risulta necessaria un’armonizzazione delle norme fitosanitarie).” 

    In sostanza il ministro ci vorrebbe far credere che il superamento delle barriere non tariffarie avverrebbe a senso unico e a solo vantaggio delle merci italiane, ma non viceversa!!

     

     

  • Il km0 o l’impatto ambientale? Sulla distanza delle aziende dai mercati.

    Il km0 o l’impatto ambientale? Sulla distanza delle aziende dai mercati.

    KmZero

    Hoverfly_May_2008-8La locuzione “Km0” è la traduzione italiana di “food miles”. Questo termine, nella traduzione italiana non è privo di conseguenze. Il concetto di “Km0”, rispetto alla sua versione inglese, mette l’accento sui luoghi d’origine dei cibi, legandosi ad un movimento di rivalutazione delle tradizioni popolari e della storia patria che, nella sua versione più etnocentrica, è alla radice anche di un fenomeno come quello leghista. Il concetto ha avuto successo in ambienti e indirizzi politici piuttosto eterogenei. La crescita di sensibilità nei confronti dei problemi di natura ecologica, associata al richiamo alle tradizioni locali, ai prodotti tipici, ha reso molto popolare il “km0”, al punto che anche organizzazioni nazionali (vedi ad es. la coldiretti) lo hanno sposato. Questo movimento di opinione ha portato alla nascita di innumerevoli “farmer’s markets” con caratteristiche alquanto eterogenee (biologico/convenzionale, territoriali/inter-territoriali, ecc.).
    Nella pratica, l’idea di km0 ha prodotto delle pratiche che hanno messo al centro i “prodotti tipici”, non tanto perché in essi la quota di km percorsi dal cibo è inferiore rispetto a degli equivalente provenienti da zone più distanti, quanto perché essi esprimono il legame territoriale del produttore e del co-produttore con il suo territorio. Si tratta di un territorio vicino, della tradizione locale, dove la vicinanza è sinonimo di fiducia (mentre la distanza, l’impersonalità comunicano soprattutto sfiducia), questo ha veicolato l’idea che mangiare i prodotti del territorio è anche un comportamento in qualche modo più salutare.

    In effetti, in linea generale questo è maggiormente probabile, soprattutto quando il termine di paragone sono i “cibi industriali” con i suoi portati chimici di grassi animali e idrogenati, conservanti, coloranti e addittivi alimentari in genere, ma non è sempre così. Nelle singolarità degli scambi economici, questo si traduce come rapporto tra produttore e co-produttore/consumatore; rapporto che non necessariamente veicola prodotti più sani, meno inquinati (ad esempio, è noto che la pianura padana non sia tra i luoghi meno inquinati d’europa) o meno carichi di pesticidi (soprattutto se si tratta di piccole aziende in regime di agricoltura convenzionale), e non necessariamente meno inquinanti.

    Assumere l’aspetto territoriale come “differenza che fa la differenza” nella partecipazione delle aziende ad un mercato contadino (“mercati a km0”) ha degli indubbi vantaggi da un punto di vista sociale ed ambientale. Promette e in parte riesce, ad esempio, a supplire alla mancanza di redditività dell’agricoltura per l’industria, cosa che ha permesso una rinascita, seppur ancora molto limitata, di una agricoltura che produce anche o solo per la vendita diretta del proprio prodotto (preferibilmente nel proprio territorio di appartenenza). Questo, secondariamente, permette a molti agricoltori di continuare anche a produrre per l’industria a prezzi inferiori ai costi di produzione. Diversi contadini, infatti, si trovano nella situazione di coprire le perdite derivanti da produzione specializzate per l’industria, con i redditi derivanti dalla vendita diretta (rendendo, si potrebbe dire, la vendita diretta una stampella dell’autosfruttamento per la produzione agricola industriale).

    L’agricoltura per la vendita diretta è una soluzione economicamente più redditizia per l’agricoltura, ma da questo punto di vista non tutti i territori godono delle stesse possibilità di “co-produzione”. E’ evidente, ad esempio, che essere un agricoltore che si orienta alla vendita diretta ed avere i campi nei pressi di una città, vuol dire avere la possibilità di incontrare un maggior numero di co-produttori presso “mercati contadini” cittadini, e cioè avere una base di co-produttori in grado di dare redditività all’agricoltore che vi partecipa.
    Vendere un prodotto di cui c’è molta abbondanza nel territorio (perché vocato o perché storicamente l’agricoltura di quel territorio si è orientata verso un certo tipo di monocolture), al contrario, può essere difficile proprio per la mancanza di co-produttori interessati. Produrre ortaggi in montagna è generalmente meno conveniente che in zone pedoclimatiche più calde (quando gli ortaggi sono pronti per essere venduti il mercato è spesso già saturo e deprezzato) se poi la probabilità di incontrare co-produttori interessati (data la scarsa densità abitativa delle montagne) è piuttosto bassa, allora diventa evidente che le condizioni di partenza creano delle differenze sostanziali.

    In questo senso, se ne potrebbe osservare, che la posizione geografica è fonte di una disuguaglianza sociale stabilita, diciamo così, “per nascita”, piuttosto che sulla base del proprio agire ecologico. I campi non si spostano, alcuni km o differenze di decine di metri possono generare condizioni molto diverse per il singolo agricoltore. E’ questo il caso dei mercati che stabiliscono un limite chilometrico o socio-territoriale (solo gli agricoltori che sono a meno di 30 km o solo quelli della provincia di Bologna), è il caso del regolamento del comune di bologna sui mercati a km0, ma anche quello dei regolamenti dei “mercati della terra” targati Slow Food.

    La scelta di restringere la partecipazione ai mercati cittadini solo alle aziende di un certo territorio (scelta sicuramente motivata sulla base di criteri del minor impatto ambientale) può, in altre parole, produrre effetti non voluti perché non tiene conto delle singole specificità aziendali. Si tendono a trascurare aspetti relativi alle modalità “contestuali” della produzione e della vendita (ad esempio: quanto prodotto si vende per km percorso? Quanta energia non rinnovabile si è utilizzata per produrre quel cibo? Che tipo di rifiuti sono stati prodotti o verranno prodotti durante il ciclo di vita di quel cibo?).

    I regolamenti dei mercati a km0 escludono dalla partecipazione ai mercati le aziende agricole al di fuori di un certo range chilometrico, ma poiché la legge di regolamentazione della vendita diretta consente agli stessi agricoltori di vendere fino al 49% di prodotto non proprio, le conseguenze di questo principio diventano di fatto un privilegio per le aziende del territorio che acquisiscono quote di mercato cittadino solo per il fatto di appartenere al territorio. Diventa evidente che la sola distanza territoriale tra luogo di produzione e luogo di vendita è una discriminante che da sola è inadeguata e che può diventare semplicemente discriminatoria!

    L’impatto ambientale

    L’idea di “carbon footprint” lega la vita di un prodotto (dalla produzione al consumo) all’impatto che quel prodotto ha sull’ambiente, valutato come quantità di CO2 immessa nell’aria (e cioè come “impronta carbonica”), ed è una misura più raffinata perchè tiene conto di un numero di fattori maggiori rispetto alla più semplice idea di km0. Prendiamo, ad esempio, due aziende ad alcune decine di kilometri l’una dall’altra che praticano l’agricoltura in serra. Nella prima il riscaldamento della serra avviene attraverso l’uso di combustibili fossili, nella seconda (quella più lontana) le serre sono riscaldate attraverso la fermentazione del compost. A parità di condizioni l’azienda che usa il compost pur essendo più lontana avrebbe un’impronta ecologica più bassa.

    Sarebbe, quindi, più giusto calcolare l’impronta ecologica dei singoli prodotti per discriminare le aziende, ma anche questa misura non è sufficiente perché trascura una moltitudine di altri fattori.

    Bisognerebbe mettere a punto degli indicatori più complessi che siano in grado di considerare una pluralità di parametri: non solo il luogo di produzione, ma anche le condizioni di produzione (con quali mezzi è stato ottenuto, quali concimi, quali antiparassitari, erbicidi, sementi), le condizioni di magazzinaggio (trasporti, refrigerazione, trattamenti, ecc.), le modalità di confezionamento (conservanzione, packaging, trasformazione, ecc.) il trasporto (tipologia dei mezzi di trasporto impiegati, capacità di carico per grammi di CO2 emessa) e, infine, le stesse modalità di vendita (unità di prodotto venduto per chilometri percorsi).

    Bisognerebbe procedere ad analisi più complesse e prendere in considerazione i molteplici fattori che concorrono a generare l’impatto ambientale negativo o positivo di un prodotto. I risultati di queste analisi discriminerebbero con più precisione della semplice lontananza territoriale della produzione dal luogo di vendita, indicando comportamenti ed aziende agricole virtuose (tali da avere un impatto ambientale positivo) e stimolando al contempo gli agricoltori a fare di più e meglio.

  • Rovesciare il paradigma: l’agricoltura biologica come norma

    Rovesciare il paradigma: l’agricoltura biologica come norma

    Monsanto pesticide to be sprayed on food crops.Siamo abituati a considerare “normale” ciò che normale non è.

    Siamo abituati a considerare normale quel tipo di agricoltura che inquina, fa male alla salute, distrugge l’ambiente e la biodiversità e genera in questo modo ingenti costi indiretti per le collettività. La consideriamo talmente normale che riteniamo giusto che questo tipo di agricoltura possa essere finanziata con soldi pubblici, che produca cioè un danno doppio alle nostre economie.

    Tutti noi contribuiamo con i nostri soldi perché qualcuno sversi veleni nei terreni e nelle falde acquifere, desertifichi, produca a costi sempre più bassi per permettere alle industrie agroalimentari di vendere a prezzi che non coprono neanche il costo di produzione. Paghiamo perché qualcuno sfrutti il lavoro contadino e renda gli agricoltori compartecipi di questo sfruttamento, alla ricerca di un minimo margine di guadagno, possibile solo attraverso il ricorso crescente a pesticidi, anticrittogamici, concimi chimici, OGM e quant’altro.

    Bisogna rovesciare il paradigma che vede l’agricoltura non biologica come la norma e l’agricoltura normale (cioè il biologico) come una sorta di devianza più o meno positiva da incentivare.

    Rovesciare questo paradigma vuol dire togliere i contributi agli agricoltori NON biologici, perché altrimenti finanziamo un’economia insana (malattie, inquinamento, riduzione della biodiversità, ecc.). Chi coltiva in modo “normale” e sano, cioè senza l’ausilio di veleni e concimi chimici derivati dal petrolio, al contrario non genera costi indiretti per la collettività . Bisognerebbe piuttosto tassare l’agricoltura non biologica, proporzionalmente all’impatto ambientale. L’agricoltura convenzionale fa concorrenza sleale nei confronti di chi cerca di produrre beni primari riducendo l’impatto ambientale. Una concorrenza sleale che mette sul mercato prodotti a prezzi innaturali, drogati dalla chimica e basati sullo sfruttamento indiscriminato del lavoro e del territorio.

    L’agricoltura biologica ha uno svantaggio doppio, perché i prezzi di mercato (anche quelli del biologico) sono sostanzialmente determinati dall’agricoltura convenzionale e in molti casi già così non ripagano i costi di produzione.

    Bisognerebbe eliminare la certificazione biologica e certificare invece, con controlli sistematici sui residui, l’agricoltura convenzionale; indicare in etichetta i pesticidi, diserbanti, anticrittogamici utilizzati e mettere disclaimer per rendere consapevole chi  acquista del tipo di economia che sostiene comprando quel prodotto: “attenzione questo prodotto danneggia l’ambiente e può far male alla salute”.

    Per re-indirizzare il mercato verso una produzione più sana, più rispettosa dell’ambiente,  produrre patate, pomodori, zucchine in agricoltura NON biologica dovrebbe costare più che produrre lo stesso “naturalmente” e di questo ne beneficeremmo tutti quanti.

     

  • La zappa sui piedi

    La zappa sui piedi

    maxresdefaultDurante la passata primavera abbiamo ospitato presso i nostri mercati lo spettacolo di Andrea Pierdicca ed Enzo Monteverde dal titolo “Il cantico delle api”. Ora è diventato un video-documentario! Lo spettacolo, incentrato sull’uso criminale dei neonicotinoidi (pesticidi estremamente dannosi per l’ambiente e per le api in particolare) è molto bello, nel video sono presentate anche alcune interviste a produttori di CampiAperti.

    Buona Visione!!

    La zappa sui piedi

    Video itinerante di narrazione e musica
    su api, pesticidi e agricoltura

    prodotto da UNAAPI con la partecipazione di CONAPI

    di: Andrea Pierdicca, Enzo Monteverde
    Riprese Video: Max Brontolai
    Montaggio: Andrea Pierdicca, Enzo Monteverde
    Musiche: Enzo Monteverde , Yo Yo Mundi
    Disegni : Simone Pontieri
    Traduzione: Nicolò Vivarelli