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Agricoltura biologica e mercati contadini per l'autogestione alimentare
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di MIMMO PERROTTA e DEVI SACCHETTO
A Nardò (Lecce) è tornata la normalità. Giusto un anno fa, il 31 luglio 2011, uno sciopero di due settimane era riuscito a rompere il silenzio sulla condizione lavorativa dei migranti nell’agricoltura meridionale. Ora la Masseria Boncuri, luogo in cui era nata e cresciuta quella protesta, è un posto spettrale: fuori erbacce e spazzatura, dentro escrementi e fili tagliati. Facile rendersi conto che non si tratta di vandalismo o di ruberie di pochi metri di filo di rame: i responsabili sono da ricercarsi piuttosto tra gli scagnozzi locali. L’esperienza doveva essere zittita e sfregiato il luogo in cui si è costruita.
Il Comune, per qualche anno principale finanziatore dell’accoglienza, e proprietario dello stabile, non sembra intenzionato a riaprirlo. E comunque ora è decisamente tardi, anche perché solitamente il campo apriva poco dopo la metà di giugno. La raccolta di angurie è pressoché finita e quella di pomodori si concluderà a fine agosto. La Provincialatita, mentre la Regione, che l’anno scorso durante lo sciopero aveva mobilitato due assessori, si è offerta di contribuire economicamente al campo ma non è stata in grado di consentirne l’apertura. L’associazione Finis Terrae e le Brigate di solidarietà attiva, che avevano vinto il bando per la gestione della Masseria nel 2010 e nel 2011, monitorano la situazione, ma sono prive di un sito logistico da cui operare e si devono confrontare con forti pressioni per mantenere bassi i toni. La Cgil, infine, ha lanciato dal 5 al 14 luglio proprio a Nardò la campagna «Gli invisibili delle campagne di raccolta», che consiste nell’assistenza legale, medica e contrattuale portata direttamente ai migranti nei luoghi di abitazione con un camper attrezzato, ma solo per qualche giorno: una campagna che resterà di mera testimonianza e molto difficilmente inciderà sui rapporti di forza nei campi di raccolta, così come è successo per altre iniziative simili negli anni scorsi.
Forse qualcuno pensava che qualcosa sarebbe cambiato dopo l’operazione «Sabr» della Dda di Lecce nel maggio di quest’anno che ha ripulito la faccia meno presentabile della struttura produttiva e lavorativa neretina arrestando una ventina tra imprenditori e caporali anche stranieri. Alcune delle accuse, tra cui quella che aveva fatto scalpore, di «riduzione in stato di schiavitù», sono nel frattempo cadute e qualche caporale è già in libertà. A Nardò il clima è teso e molti, anche tra gli italiani, non hanno voglia di parlare della situazione. D’altra parte le organizzazioni padronali fin dalla primavera scorsa avevano ben pensato di dichiarare lo stato di crisi: scarse le necessità di manodopera, inutile riaprire la Masseria. Ma i lavoratori migranti sono giunti, sebbene meno numerosi del solito, e, come in altre aree del Mezzogiorno, sono tornati a sistemarsi sotto gli ulivi o in qualche casa abbandonata. Una parte è sicuramente alloggiata nelle case degli imprenditori agricoli che quest’anno vogliono mantenere un basso profilo.
A poche centinaia di metri da Boncuri, sul lato opposto della strada, un’ex-falegnameria e un uliveto ne ospitano un centinaio: una decina di igloo, vari materassi buttati a terra, qualche vecchia brandina, qualche cucina organizzata alla meno peggio. In questo campo auto-organizzato, il Comune ha messo a disposizione sei bagni chimici e una cisterna d’acqua. Poco lontano qualche decina di migranti carica un camion di angurie, altri raccolgono i pomodori. Basta avanzare di qualche metro ancora e una grande serra è in via di ultimazione. Nonostante le continue lamentele, il settore regge e sembra in grado di garantire lauti profitti, a pochi. Vero è che accanto ai campi di pomodori, angurie, ulivi e uva, molti sono quelli colonizzati dal fotovoltaico. Un altro business che il padronato pugliese ha colto al volo.
Ora i lavoratori migranti sono divisi in piccoli nuclei, per nazionalità e per capo nero. Il turnover lavorativo gestito dal padronato e dai suoi caporali ha richiamato nuova forza lavoro che non aveva mai messo piede prima da queste parti. Non a caso proprio in una telefonata intercettata dalla Dda di Lecce, a proposito di un gruppo di lavoratori, un imprenditore locale diceva: «Li abbiamo sfiancati, mandatecene altri». James, ghanese, non era mai stato da queste parti: viene da Castelvolturno, è arrivato un mese fa e non è ancora riuscito a reperire un ingaggio. Come altri sta tornando verso la casa abbandonata che lo ospita dopo aver recuperato un paio di sacchetti con qualche genere alimentare fornito settimanalmente dalla sede locale della Caritas: «Sono tre anni che sto in Italia, ma qui è veramente dura. Non riesco a trovare lavoro e non ho soldi. Non so bene cosa fare, forse parto per Foggia per vedere se riesco a trovare qualcosa».
Quanti puntualmente ritornavano ogni stagione hanno forse seguito più saggi consigli: stare lontani da Nardò. In effetti, ritroviamo pochi dei migranti dell’anno scorso. Daniel che viene dal Sudan è uno di questi e si lamenta della mancata apertura della Masseria: «Ma come? L’anno scorso c’era l’acqua, potevamo farci la doccia e ora qui dobbiamo fare chilometri per riempirci due bottiglie d’acqua? È uno schifo, siamo tornati indietro». Eppure il sindaco di Nardò, Marcello Risi, a metà luglio affermava: «la Masseria Boncuri e la lurida tendopoli attrezzata sull’antistante piazzale d’asfalto erano questo: un ghetto nauseabondo».
Nella raccolta accanto ai migranti quest’anno è tornata anche qualche decina di braccianti italiani, in particolare donne, a causa della crisi economica. Una nuova composizione sociale e politica si presenta quindi a sostenere l’agricoltura neretina. Essa è «regolata» tra l’altro da un nuovo contratto provinciale di lavoro, firmato dai sindacati confederali e dalle organizzazioni padronali a fine maggio, che legalizza il lavoro a cottimo: 1 centesimo al chilo per le angurie, 2 centesimi al chilo per i pomodori grandi (cioè 6 euro a cassone di 300 chili) e poco più di tre centesimi al chilo per i pomodorini (cioè 10 euro a cassone). È facile per qualsiasi consumatore sensibile capire l’irrisoria quota riservata al lavoratore, rispetto al prezzo finale. Peraltro, l’anno scorso da queste parti il cottimo pagato ai braccianti era circa la metà: 3,50 euro a cassone per i pomodori e 6 euro per i pomodorini. Difficile pensare che le aziende raddoppino le paghe per rispettare il nuovo accordo.
Ma è l’introduzione contrattuale del salario a cottimo, un salto indietro nella storia del movimento operaio italiano, che ha fatto trasalire più di qualche sindacalista. L’espansione del cottimo nell’economia italiana è avvenuta quasi sempre in modo illegale e ora comincia a prendere una sua forma giuridica; siamo certi che non mancheranno quanti lo proporranno come ricetta per contribuire al rilancio del paese, in un momento, come si dice, tanto difficile.
Il lavoro a cottimo e la dispersione nelle campagne lasciano nell’isolamento e nella solitudine i lavoratori migranti, così come quelli italiani. Forse l’anno scorso la sistemazione poteva apparire disastrosa. Ma quella Masseria ha costituito uno spazio pubblico di discussione che, con la sua forma aperta e grazie alla presenza di volontari e militanti, ha rotto l’isolamento in cui si trovano i braccianti stranieri in tutto il Mezzogiorno e ha permesso la straordinaria presa di parola dello sciopero. Quell’esperienza ha rappresentato e continua a rappresentare un simbolo della capacità di autorganizzazione dei lavoratori migranti in Italia, anche per quanti nel corso degli ultimi mesi hanno messo in campo, da Pioltello a Basiano a Castenuovo Scrivia, articolate e ricche forme di espressione della propria soggettività.
Si sono venduti l’energia, i trasporti, gli acquedotti, gli immobili, le strade e adesso si vendono pure la Madre.
Si concepisce la Terra solo in termini di possesso, come bene escludente, oggetto di diritti di proprietà.
In nome della proprietà la terra continua a essere violentata: dal folle processo di urbanizzazione senza regole se non quelle della rendita e del profitto.
Un paese che vende le terre agricole pubbliche rinuncia definitivamente alla propria Sovranità Alimentare
Forse non tutti sanno che l’art.7 della legge del 12 novembre 2011 programma in tempi rapidi l’alienazione(vendita) dei terreni agricoli demaniali. La fine arguzia degli emendamenti apportati dal più recente Dercreto Monti è addirittura peggiorativa estendendo il provvedimento ai terreni “a vocazione agricola”.
Eccoci dunque arrivati a quella che potrebbe essere l’ultima tappa di un oscuro cammino iniziato 2 decenni fa circa, un processo di svendita dei beni pubblici a privati in nome di una più efficiente gestione, come se la logica del profitto privato avesse mai reso dei servigi alla collettività. Si sono venduti l’energia, i trasporti, gli acquedotti, gli immobili, le strade e adesso si vendono pure la Madre: si vogliono vendere la terra in un contesto internazionale dove sta crescendo a ritmo costante il fenomeno denominato land grabbing, l’accaparramento di terreni agricoli da parte di soggetti economicamente forti (paesi in forte crescita e multinazionali) e da parte di speculatori finanziari senza scrupoli, interessati unicamente ad individuare nuove fonti di profitto per i propri capitali da investire.
Ecco quindi chi sono i veri destinatari di questa manovra, non certo i giovani imprenditori agricoli di cui parla il comma 2: “…al fine di favorire lo sviluppo dell’imprenditorialità agricola giovanile è riconosciuto il diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli“. Garantire l’accesso alla terra ai giovani o a chiunque voglia lavorarla non vuol dire garantirne la proprietà e la compravendita – meccanismo questo che per un giovane agricoltore comporta l’indebitamento con le banche – bensì elaborare una serie di normative che favoriscano e sostengano chi vuole iniziare un’attività agricola mettendogli a disposizione l’uso agricolo della terra garantito contro ogni possibile speculazione. Proseguendo invece nella lettura del comma 2, che con tanto nobili propositi era cominciato, si legge: “Nell’eventualità di incremento di valore dei terreni alienati derivante da cambi di destinazione urbanistica intervenuti nel corso del quinquennio successivo alla vendita, è riconosciuta allo Stato una quota pari al 75% del maggior valore acquisito dal terreno rispetto al prezzo di vendita“. Quindi lo stato si limita a disincentivare il cambiamento d’uso dei terreni per soli 5 anni senza altra garanzia di salvaguardia ambientale; anzi considera possibile un loro cambio di destinazione già nel primo quinquennio successivo alla vendita.
Concludendo questa lettura troviamo lapidario il comma 5: “Le risorse nette derivanti dalle operazioni di dismissioni di cui ai commi precedenti sono destinate alla riduzione del debito pubblico“. Le risorse nette derivanti equivarrebbero a circa 6 miliardi di euro, una goccia nel mare del debito (circa 1800 miliardi) quando il costo stimato delle opere per la TAV in Val di Susa è di 20 miliardi! Con il risultato di essersi sbarazzati del patrimonio senza tappare alcun buco di bilancio, senza poter tornare indietro visto l’articolo che tutela la proprietà privata.
Le terre che saranno vendute non potranno mai più tornare pubbliche!
A questo punto sentiamo l’urgenza di dire che un paese che vende le terre agricole pubbliche è un paese che rinuncia definitivamente alla propria Sovranità Alimentare, è un paese che mette con prepotenza l’interesse privato al di sopra del bene comune, è un paese che non saprà come raccontare ai propri figli che si è venduto la terra in nome del bilancio finanziario.
La vendita delle terre dello stato deve essere fermata!
Ridiscutiamo, invece, le modalità di gestione delle terre agricole di proprietà degli enti pubblici.
PROPOSTE
Noi rete delle associazioni contadine proponiamo che le terre di proprietà pubblica individuate in base all’art. 7 della legge di stabilità siano oggetto non di vendita ma di nuovi piani di allocazione:
-che ci si indirizzi verso affitti di lunga durata a prezzi equi a favore di agricoltori o aspiranti tali, sulla base di progetti che escludano attività speculative.
-si favorisca l’agricoltura contadina di piccola scala,che è l’unica che può sfamare il mondo senza causarne il dissesto, ma anzi arricchendolo e preservandone la biodiversità seguendo le richieste della Campagna per l’Agricoltura Contadina
-si prediligano progetti di cohousing, cioè di condivisione solidale dei beni e delle risorse, perchè la buona agricoltura è quella fatta con tante braccia pensanti e con poche macchine.
-Si individuino percorsi partecipati che sappiano coinvolgere nella progettazione la comunità locale e le realtà contadine di nuovo insediamento.
-si renda possibile la costruzione con materiali naturali di abitazioni rurali a bassissimo impatto ambientale come legno e paglia, ma totalmente vincolate all’attività agricola. Questo perchè chi lavora la terra deve anche poterla abitare.
Movimento per l’accesso alla terra
accessoallaterra (at) inventati.org
Pubblichiamo le riflessioni di un contadino ligure sull'alluvione, risultato non solo di eventi atmosferici eccezionali ma anche dell'abbandono di un agricoltura di montagna che si prendeva cura del territorio.
I nostri vecchi temevano l’ acqua più di ogni altra cosa. Più del fuoco, della siccità, del vento, delle malattie.
Per questo hanno impiegato la loro esistenza nel tentativo di governarne il deflusso, i percorsi. Così, ogni pietra posata, ogni muretto, ogni zolla di terra venivano finalizzati a quello scopo.
La salvaguardia dei coltivi, il rallentamento della corsa dell’ acqua diventavano funzionali alla sicurezza degli abitati sottostanti.
Vernazza à uno degli esempi più evidenti di questo compromesso dinamico, un miracolo costruito sulla pelle di intere generazioni di uomini e donne consapevoli, nella limitatezza delle loro conoscenze generali, della precarietà di quell’ equilibrio.
Quelle stesse pietre, quella stessa terra fertile, trasportata nelle corbe e nei corbini per secoli da valle a monte sulle schiene e sulla testa dei nostri vecchi, sono, in pochi attimi, precipitate in mare vanificando insieme al senso stesso della loro esistenza quello di un ‘ intera comunità.
Ricordo il filo conduttore di una vecchia intervista dell’ ex Presidente-Faraone del Parco, in cui, a proposito dell’ assetto idrogeologico delle 5 Terre, sosteneva come le simulazioni di laboratorio dimostrassero epiloghi apocalittici a seguito dell’ abbandono dei coltivi e del degrado dei terrazzamenti.
Ora che quell’ epilogo si è concretizzato, viene spontaneo domandarsi il senso di quegli esperimenti.
A che serve patrocinare dei costosi studi, organizzare progettazioni fantastiche, senza far conseguire loro dei fatti concreti e strutturali?
Infatti, l’ acqua ha continuato ad insinuarsi nelle microfrane dei muretti crollati, nelle devastazioni dei cinghiali e degli incendi, preparandosi pazientemente la strada negli incolti fino al gran colpo di mano di questi terribili momenti.
Mi viene naturale pensare allo stridente contrasto tra le risorse, le pietre, la manodopera, la tecnologia impiegata nel delirante progetto di incentivare l’accesso automobilistico alle 5 Terre, tramite lo stradone da Montale e l’ ampliamento della litoranea, rapportandolo all’ esiguità di quello impiegato nella tutela del territorio e a sostegno della produzione agricola.
Penso al beffardo contrappasso dantesco che ha portato in mare centinaia di automobili, in un contesto generale che vede la presenza ossessiva dell’ auto in ogni aspetto della quotidianità.
Mi preoccupa, nelle parole dei politici, l’ idea che sta passando tra il serio e il faceto, che si sia trattato di eventi imprevedibili e fatali, quasi che dovessero essere gli elementi naturali ad adattarsi ai parametri sempre più ristretti della crisi economica.
Allo sbalordito Presidente Burlando che, giustamente, mette in relazione questi eventi con i dati pazzeschi ed allarmanti del recente censimento agricolo ( meno 46% delle aziende agricole e meno 64500 ettari di superficie agricola coltivata in 10 anni in Liguria ), vorrei chiedere il conto della sua politica agricola e di quella dei suoi fantastici assessori all’ agricoltura.
Unica certezza, in piena continuità col passato, quella che da Levante a Ponente vedrà la Liguria al centro di politiche di violenta cementificazione, di micidiali trafori a La Spezia, in Fontanabuona, Gronde porti turistici, colmate a mare, ecc, ecc.
Al dolore per la perdita di vite umane e per le distruzioni, si aggiunge la certezza che nulla cambierà se non in peggio. E che fra poco saremo ancora qui a denunciare la prossima emergenza, lamentandoci del destino cinico e baro e della crisi economica.
Questa sera,prima di arrampicarmi con mio figlio, lungo le pendici violentate delle montagne,per guadagnare la via di casa, mi sono voluto fermare un attimo nel cimitero per trovare un po’ di conforto nello sgurdo dei miei nonni e dei miei bisnonni.
Devo confessare che la fierezza di quei volti non mi è stata di grande aiuto.
Nicola Rollando
4 novembre 2011
La prima metà della Settimana Genuino Clandestino è andata piuttosto bene, tanta gente ha partecipato ai due mercati (Vag61 ed XM24) ed anche l'incontro di Mercoledi "Crisi e lotte nell'agricoltura meridionale" è stato piuttosto partecipato.
Oggi, Venerdì 30 Settembre, vi ricordiamo l'incontro "Autorganizziamo un'altra economia" ed anche il mercato del Savena presso la Scuola di Pace in via Udine dalle 17:30.
A più tardi!!
L’associazione Campiaperti esprime la massima solidarietà e vicinanza alle persone che, in Val di Susa e non solo, da anni si oppongono alla costruzione della linea ad alta velocità Torino Lione.
Condanniamo l’uso della forza da parte del Governo contro chi, lo scorso lunedì, esprimeva legittimamente il proprio dissenso allo sventramento della Val Susa.
La TAV è il simbolo di un modello di sviluppo secondo il quale sono più importanti le merci e i profitti delle persone e dei territori. Un modello di sviluppo che non ci piace e contro il quale quotidianamente ci battiamo con le nostre pratiche, con i nostri mercati autogestiti.
La difesa dei beni comuni non può essere sbandierata quando fa (elettoralmente) comodo e poi accantonata quando imporrebbe una critica forte e necessaria a un modello che crea nocività e ingiustizia.
Come dicono in Val Susa: i tre SI al referendum non possono essere separati dal NO alla TAV.
Tutti scelgano da che parte stare.
I produttori e i coproduttori di Campiaperti