Categoria: Primo Piano
-
CampiAperti e le occupazioni
Leggiamo con preoccupazione le dichiarazioni del sindaco di Bologna dopo che sembrava prevalesse, almeno al’interno dell’amministrazione comunale, una umana ragionevolezza rispetto alla questione delle occupazioni: “sgomberi subito” leggiamo inorriditi su repubblica del 24 maggio.Noi contadini e coproduttori di CampiAperti, che in spazi occupati e in spazi nati da occupazioni facciamo tutte le settimane la prevalenza dei nostri mercati, abbiamo al proposito qualcosa da dire:quando armai 13 anni fa abbiamo avviato l’avventura della costruzione di mercati biologici contadini a Bologna abbiamo trovato nelle istituzioni di allora solo indifferenza e inossidabile immobilismo rispetto alle nostre istanze.Al contrario, nello spazio sociale XM24 abbiamo trovato quell’accoglienza che ci ha permesso di avviare un originale percorso di resistenza collettiva. Percorso che ha coinvolto, negli anni, decine e decine di realtà agricole, destinate altrimenti ad estinguersi sotto i colpi della globalizzazione dell’economia: per i contadini di CampiAperti quei luoghi, occupati o nati da occupazioni, significano possibilità di continuare a sopravvivere e a presidiare e difendere il territorio ; per i coproduttori quei luoghi rappresentano la possibilità di accedere a un cibo sicuro, buono sano e locale a prezzi acccessibili.In quei luoghi abbiamo potuto creare le condizioni per sperimentare nuove forme di cooperazione sociale la cui validità, in termini di difesa dell’interesse collettivo, è stata riconosciuta dall’amministrazione stessa, che ha sottoscritto con la nostra associazione uno specifico patto di collaborazione.Non solo: accanto a noi abbiano visto crescere innumerevoli esperienze proiettate verso la ricerca della convivenza e della crescita collettiva: esperienze di educazione e di lotta alle discriminazioni di ogni tipo, per la difesa degli strati più deboli ed emarginati della popolazione.Tra queste le occupazioni a scopo abitativo: abbiamo piantato assieme ai bambini dell’ex Telecom le fragole, i fiori e le piante aromatiche nelle aiuole che erano state abbandonate agli sterpi; abbiamo visto le facce gentili di italiani e stranieri di ogni etnia convivere in tranquillità, finalmente sollevati dalla paura di rimanere senza un tetto per i propri figli.Ora che si parla di sgomberi noi di CampiAperti diciamo pubblicamente che consideriamo criminale la politica che vuole l’interesse dei possidenti e degli speculatori prevalere sulle necessità di vita delle persone più deboli. Chi parla di miseria intellettuale degli occupanti vive in una torre d’avorio. Chi afferma la necessità degli sgomberi soffia sul fuoco dell’esplosione sociale. Qualora si desse seguito alle minacce di sgombero queste persone non potranno che essere considerate responsabili, politicamente e moralmente, delle sofferenze che ne seguiranno.L’assemblea generale di CampiAperti del 31/5/2015 -
Quale modello?
Leggo qui una dichiarazione del segretario della Camera del Lavoro di Bologna sul tema grandi opere in provincia di Bologna.
Mi sembra grave.
Grave che nel 2015, ancora, da parte di chi dovrebbe, per tutelare l’interesse dei propri iscritti, avere una visione un po’ più ampia dei problemi sul tavolo, ci si riferisca a vecchi schemi ormai consumati dal fango che essi stessi avevano prodotto.
Ancora, nel 2015, dopo tutto quello che si è scoperto fosse camuffato dalla varie grandi opere: MOSE ed EXPO, per citare le prime due che rappresentano il cosiddetto “sistema Incalza”, si affida il rilancio dell’economia locale al cemento e all’asfalto?
Cemento e asfalto che, di fatto, con buona pace del segretario CGIL, come ampiamente dimostrato negli anni, trasferiscono denari dalle tasche dei poveracci a quelle di chi già ne ha pure troppi, oltre a mascherare, spesso, corruttele varie e a comportare distruzione di suolo e consumo di risorse preziose e, a volte, rare .
Si, perché, in questi giochini, a guadagnare non è mai il popolo. Anzi!
Quello paga. Con le tasse, i pedaggi, la perdita di suolo fertile e conseguente obbligo al ricorso al cibo industrializzato, con le malattie da inquinamento, e via dicendo.
Chi ci guadagna è, regolarmente, l’impresario, il padrone dell’impresa aggiudicataria dei lavori (spesso, poi subappaltati, fino al lavoro in perdita, buono per il riciclaggio dei denari sporchi), il cavatore che fornisce gli inerti (sottratti ad un suolo che sempre più è da considerare “Bene Comune”), i vari faccendieri che in queste occasioni spuntano da ogni dove.
Mai che un soldino si sia fermato nelle tasche di un poveraccio. E quei pochi che vi hanno transitato, lo hanno fatto per poco tempo, subito trasferiti in quelle più capienti dei veri destinatari.
Ecco, nel 2015, invocare le grandi opere per rilanciare lo sviluppo (e qui ci sarebbe da domandarsi: è poi desiderabile? e in quale forma?), mi sembra quantomeno in ritardo di qualche lustro.
Lungi da me pensare che sia possibile un modello basato esclusivamente sull’agricoltura contadina. Ma una ripensata della sua visione di futuro, caro segretario, si impone, per evitare che quel futuro lì, basato su presupposti ampiamente smentiti dalla cronaca e dalla storia, ci costringa alla povertà e allo sfruttamento in eterno.
Ché, poi, a ben vedere, di possibilità di intervento pubblico per stimolare l’economia come sostiene Lei, ce ne sarebbero a iosa. Basterebbe convincere HERA a rinunciare a distribuire una parte dei dividendi (anche tutti, magari) per mettere quei soldi in manutenzioni sulle reti e miglioramentio del servizio. Di buchi nei tubi da riparare – come di artigiani capaci di farlo – ce ne sono a bizzeffe. Basta pensare alle perdite – dichiarate dalla stessa holding – intorno al 20%. Oppure a rinunciare alla politica dell’incenerimento. Ci sarebbe da lavorare per 10 volte la forza lavoro impiegata attualmente (dati del Parlamento UE, non miei). Oppure dirottare una parte delle risorse stanziate dallo Sblocca Italia per le opere inutili e dannose (Orte-Mestre in testa) per avviare il recupero di beni pubblici devastati da anni di incuria rispetto al territorio e di abbandono delle terre più marginali.
Il modello a cui fa riferimento Lei, signor segretario della CGIL, è perdente, per le masse (discorso diverso per le oligarchie, come dicevo). Ormai lo abbiamo sperimentato. Sarebbe ora fatta, direi, di cercarne un altro.
-
Expo a Milano o a Lampedusa?
Expo a Milano o a Lampedusa?
di Joao Pedro Stedile
La fame nel mondo…
Ci sono nel mondo più di un miliardo di persone che soffrono la fame tutti i giorni. Nessuno di loro sa dove stia Milano nella carta geográfica.
Ci sono nel mondo più o meno 50 transnazionali che controllano il commercio mondiale di cereali, latticini, alimenti in generale, oltre a controllare veleni, fertilizzanti chimici e supermercati. Loro saranno a Milano.
Negli anni 50, l’allora direttore generale della FAO, il brasiliano Josué de Castro sosteneva, nel libro “Geografia della Fame”, che questo problema non derivava da cause naturali, ma era risultato del modo in cui imprese e governi controllavano i prezzi, la produzione e la distribuzione degli alimenti nel mondo.
Le cause della fame…
Le grandi imprese dell’agrobusiness, intrecciandosi con il capitale finanziario, controllano l’accesso ai beni della natura, terra, acqua, biodiversità. Controllano il commercio dei prodotti agricoli. Impongono i loro prezzi e i loro tassi di profitto. Indipendentemente dal costo di produzione e dal paese.
Hanno imposto la proprietà privata di esseri viventi come le sementi, attraverso la registrazione dei semi transgenici., per ottenere maggiori profitti attraverso la vendita combinata dei semi e dei veleni. Siccome nessuno sa quali siano realmente i loro effetti sulla salute umana dovrebbe almeno essere rispettato il diritto alla precauzione!
Loro non producono alimenti, producono solo merci in cambio di profitto. Vogliono trasformare il mondo in un grande porcaio, dove ogni essere umano possa comprare, se ha i soldi, lo stesso cibo, a Honk-kong, Città del Messico. Los Angeles, Londra, Città del Capo, Mumbay….
Le imprese transnazionali impongono la monocultura, su larga scala, alla ricerca del massimo profitto. Uccidono la biodiversità con i loro veleni., alterano il clima e causano molte malattie a tutti gli esseri umani con i loro prodotti tossici.
E poi guadagnano ancora più denaro vendendo le medicine per curare quelle malattie che loro stesse hanno provocato.
Le stesse imprese che oggi uccidono la natura con i loro veleni hanno aiutato a uccidere milioni di esseri umani nei campi di concentramento nella seconda guerra mondiale con i loro gas. Più tardi hanno ucciso migliaia di vietnamiti con il loro agente arancio. E ora distribuiscono glifosato come se fosse necessario!
Quel che vogliamo..
Gli alimenti non possono essere merci. Gli alimenti sono un diritto che ogni essere umano possiede per riprodurre la sua vita su questo pianeta insieme a tutti gli altri esseri viventi.
Le persone hanno bisogno di alimenti, che sono l’energia riproduttiva della vita sul pianeta.
L’essere umano può e deve produrre i suoi alimenti in ogni habitat in cui vive. Così è stato lungo la storia dell’umanità.
Il ruolo dei governi e degli stati è sviluppare politiche pubbliche di appoggio all’organizzazione della produzione di alimenti in ogni regione.
Ma la maggioranza dei politici e dei governi sono stati sequestrati dagli interessi delle grandi imprese, che finanziano le loro campagne e i loro interessi.
Noi movimenti di agricoltori sosteniamo l’adozione delle tecniche dell’agroecologia, come forma per produrre più alimenti sani e in equilibrio con gli altri esseri viventi della natura.
Chi soffre la fame, non ha lavoro, terra, acqua e reddito lì dove vive non è colpevole!
Certamente non si risolverà il problema della fame, realizzando esposizioni per migliorare l’immagine delle imprese che causano la fame.
Se vogliarmo realmente combattere la fame sarebbe meglio organizzare un’esposizione di alimenti e pratiche produttive a Lampedusa!
(1)Joao Pedro Stedile, brasiliano di origine trentina, militante della Via campesina internazionale e della causa della sovranità alimentare.
-
L’agricoltura biologica: la situazione nel contesto italiano e globale
Ricevo da Alberto Berton, economista, tra gli organizzatori del convegno di presentazione del Manifesto di Brescia sull’agricoltura ecologica, il testo del suo intervento tenuto in quella occasione.
Mi sembra interessante, sia perché ripercorre la nascita dell’agricoltura biologica, sia perché, proprio a partire da quella storia, introduce una critica alla deriva attuale del sistema del bio a livello nazionale ed internazionale.
Una buona lettura, insomma.
Pierpaolo
———————————————-
L’agricoltura biologica: la situazione nel contesto italiano e globale
di Alberto BertonCome ama ricordare Giorgio Nebbia citando Shakespeare, “il passato è prologo”. Seguendo questo prezioso insegnamento, per cercare di comprendere la situazione dell’agricoltura biologica nel contesto italiano e globale, prima di analizzare gli eclatanti dati quantitativi di crescita, pensiamo sia utile ripercorrere, seppur brevemente, alcuni degli eventi che hanno mosso la storia dell’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica nasce nel periodo tra le due guerre mondiale, come reazione contro i primi sviluppi dell’agricoltura industriale.
Nel 1913 venne inaugurata a Oppau, in Germania, la prima grande fabbrica per la produzione industriale dell’ammoniaca. Grazie al processo messo a punto dai due chimici tedeschi Fritz Haber (1868-1934) e Carl Bosch (1874-1940), denominato appunto il processo Haber-Bosch, per la prima volta si riuscì a sintetizzare in modo efficiente l’azoto, partendo dalle abbondantissime quantità di gas contenute nell’aria. La sintesi dell’azoto permise alla Germania di affrancarsi dalla dipendenza delle importazioni di salnitro cileno, necessario soprattutto per la produzione di esplosivi e di fertilizzanti azotati, la cui importanza per la fisiologia delle piante, insieme a quella di fosforo e potassio, era stata dimostrata da Justus von Liebig (1803-1873) nei primi anni ’40 dell’Ottocento. Le prime produzioni di ammoniaca dell’impianto di Oppau vennero destinate alla fabbricazione di esplosivi, ma nel corso della prima guerra mondiale l’azoto di sintesi venne massicciamente utilizzato dall’agricoltura tedesca1.
Nello stesso tempo negli Stati Uniti era iniziata la cosiddetta Golden Age of Agriculture (1910-1920), un periodo di grande prosperità per gli agricoltori americani grazie all’aumento della domanda interna e delle esportazioni verso i Paesi europei belligeranti. I prezzi dei prodotti agricoli crebbero più velocemente dei prezzi degli altri generi di consumi, dei beni strumentali e degli immobili, situazione che determinò un aumento massiccio della produzione agricola ottenuto trasformando le grandi praterie americane in monoculture cerealicole altamente meccanizzate.
Il massiccio riscorso alla fertilizzazione azotata in Germania e in altri paesi europei come Inghilterra e Italia, non tardò a manifestare danni al suolo (mineralizzazione, compattazione, perdita di ritenzione idrica) e al metabolismo delle piante (i cui cultivar erano inadatti ad alte concentrazioni di azoto nel terreno). Dopo la prima guerra mondiale la Germania soffrì di un calo drammatico delle rese agricole (fino al 40%) che solo alla fine degli anni ’30 ritornarono ai livelli pre-bellici.
Nelle immense campagne americane, alla Golden Age fece seguito prima la devastante crisi economica e sociale degli anni ’20 e, subito dopo, l’ancora più devastante crisi ecologica delle Dust Bowl, una lunga serie di tempeste di sabbia e polvere che, nel corso degli anni ’30, colpirono un’area di 40 milioni di ettari nelle Great Plains causando la migrazione di milioni di contadini. La siccità ciclica tipica dell’area interessata, unita alla lavorazione meccanizzata del terreno dedicato pratiche monoculturali che lasciavano scoperto il suolo durante il periodo invernale, furono le cause principali di questo fenomeno.
In questo contesto storico di crisi della nascente agricoltura industriale, si svilupparono così in Europa e negli Stati Uniti filoni di pensiero eterogenei accomunati dall’idea che il mantenimento della fertilità organica del suolo sia la prima condizione per la sostenibilità dei sistemi agricoli.
Fu dall’amalgama delle idee di questi diversi filoni che nacque l’agricoltura biologica, le cui origini normalmente vengono rintracciate nella scuola tedesca di biologia del suolo (Albert Bernhard Frank, Hermann Hellriegel, Hermann Wilfahrt) che aveva fatto luce sulle relazioni simbiotiche tra piante e batteri che permettono naturalmente di fissare l’azoto atmosferico nel suolo; nel movimento culturale tedesco della “Life Reform” collegato a quello americano della “Food Reform”; nel filone esoterico dell’agricoltura biodinamica (Rudolf Steiner, Ehrenfried Pfeiffer); nella scuola inglese dell’organic agriculture (Albert Howard, Robert McCarrison, Eve Balfour) che darà poi vita a Soil Association; nel gruppo di scienziati esperti di protezione del suolo, sviluppo territoriale e ecologia, denominato Friends of the Land, formatosi negli Stati Uniti a seguito della crisi delle Dust Bowl durante i “Dirty Thirties” (Edward H.Faulkner, Louis Bromfield, Aldo Leopold, Hugh H. Bennett).
La letteratura internazionale solitamente allarga l’elenco dei “pionieri” fino ad arrivare alla scuola francese dell’agriculture biologique (Claude Aubert) e a quella svizzera dell’agricoltura organico-biologica (Hans Muller, Maria Muller). Normalmente assente, nell’elenco suddetto, la tradizione scientifica dell’agricoltura biologica italiana che ha come padre indiscusso la figura dell’agronomo emiliano Alfonso Draghetti (1888-1960), direttore per oltre un trentennio della Stazione agraria sperimentale di Modena, la più prestigiosa istituzione agronomica dell’Italia unificata (il cui edificio, insieme a quanto ancora contiene, è lasciato oggi in stato di abbandono nell’attesa di essere venduto ai privati).
Alfonso Draghetti nel suo testamento scientifico, “Fisiologia dell’azienda agraria” del 1948, espone la sua concezione “organica” dell’azienda agricola come corpo (oggi si direbbe sistema) composto da parti attive (terreno geologico, suolo, coltivazioni, stalla, concimaia) interconnesse da circolazioni (flussi) di materia organico-minerale. L’obiettivo di una corretta gestione agronomica è la “perennazione” (sostenibilità nel tempo) dell’azienda agricola, capace autonomamente di generare un flusso costante di prodotti agrari e zootecnici per il mercato. L’ideale agricolo è quello dell’azienda mista latina, basata sulla rotazione di cereali e foraggere, sulla componente animale bovina, e sull’utilizzo accorto delle leguminose, del letame e del composto per ripristinare la fertilità del suolo.
A partire dagli inizi degli anni ’30, Alfonso Draghetti organizza un rigoroso piano di miglioramento nell’azienda sperimentale di San Prospero di Secchia, scelta appositamente per la situazione degradata del suolo, tramite il quale dimostra che, grazie ad una corretta gestione biologica dell’azienda, senza necessità di continui input artificiali esterni, la produzione di materia organica complessiva e di produzione vendibile più che raddoppia nel corso del quindicennio di sperimentazione.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale a tutti gli anni ’50, l’interesse per agricoltura biologica rimase confinato in ambienti marginali, e l’agricoltura contadina venne in gran parte travolta dal successo dell’agricoltura e zootecnia industriale che grazie agli sviluppi della genetica, della meccanizzazione, dei sistemi di irrigazione, della farmacologia e della produzione e utilizzo di pesticidi raggiunse dei risultati produttivi (immediati) miracolosi. Come è noto, questo incanto fu rotto all’inizio degli anni ’60 con la pubblicazione del libro della biologa americana Rachel Carson (1907-1964) tradotto in italiano con il titolo “Primavera silenziosa” (1962) che, denunciando l’uso indiscriminato degli insetticidi come il DDT, fece nascere il movimento di contestazione ecologica.
All’attacco contro l’agricoltura industriale seguì poco dopo quello contro la zootecnia industriale, che vide la sua espressione più compiuta nel libro del 1964 dell’attivista inglese Ruth Harrison (1920-2000), con prefazione della stessa Rachel Carson, intitolato “Animal Machines” che denunciò per prima volta la crudeltà dei nuovi metodi di allevamento industriale, come quello dei vitelli basato sull’ingrasso forzato con alimenti incompleti in gabbie di legno completamente buie, pensando in tal modo di aumentare la quantità di carne anemica. La denuncia della Harrison sugli allevamenti intensivi stimolò la redazione di uno dei primi rapporti pubblici sul benessere animale, il Brambell Report (1965) che venne poi preso come base per le successive legislazioni comunitarie in materia.
Alla fine degli anni ’60 il movimento ecologista e il movimento pacifista, convergenti verso la contestazione contro le grandi industrie chimiche produttrici sia di prodotti per l’agricoltura che di prodotti per la guerra, diedero un nuovo rinnovato impulso all’agricoltura biologica, il cui interesse si diffuse in tutto il mondo tra i giovani della generazione del ’68. Seguendo il sentiero dell’ inglese Soil Association, fiorirono in diversi paesi le prime associazioni del biologico come l’italiana Suolo e Salute, fondata nel 1969 a Torino da un gruppo di medici e agronomi tra cui ricordiamo il Prof. Francesco Garofalo, che sostanzialmente riposizionò l’agricoltura biologica italiana sul solco scientifico tracciato da Alfonso Draghetti. Nel 1972 venne poi creata l’International Federation of Organic Agriculture Movements (IFOAM) che creò la piattaforma comune per lo sviluppo dei primi standard per le produzioni biologiche condivisi a livello internazionale.
La crisi petrolifera del 1973 stimolò le prime analisi relative al problema della dipendenza del sistema agro-alimentare industriale alle risorse esauribili, analisi che (come quelle dell’entomologo americano David Pimentel e del giornalista scientifico inglese Gerald Leach) misero in luce non solo la maggiore efficienza energetica dell’agricoltura contadina e biologica rispetto a quella industriale, ma anche gli enormi sprechi che avvengono all’interno di tutto l’industrial food system (input agricoli, trasporto, produzione agricola, trasporto, trasformazione, trasporto, distribuzione, trasporto, preparazione) all’epoca ormai dominato, negli USA come in Inghilterra, dalle grandi aziende di trasformazione e di distribuzione, e dai relativi trasporti su gomma.
Dopo la fase di contestazione e di analisi, verso la fine degli anni’70, negli Stati Uniti come in Europa, si assistette al cosiddetto back-to-the-land movement, ovvero al fenomeno del ritorno alla terra che portò migliaia di ragazzi provenienti dalle città a trasferirsi nelle aree rurali abbandonate per fondare comunità agricole biologiche. Fu in questo contesto che in Italia, ad esempio, nacquero quelle che poi diverranno le realtà pionieristiche del biologico nazionale tra le quali ricordiamo la Cooperativa Alce Nero nelle Marche, la Cooperativa Il Sentiero e la Cooperativa Iris in Lombardia, la Cooperativa Valli Unite in Piemonte, la Cooperativa Ottomarzo in Veneto.
Contemporaneamente, a partire dalla prime esperienze di gruppi di acquisto, si crearono i primi modelli distributivi biologici ed ecologici, fondati su una forte condivisione etica e valoriale, nonché politica, come la Cooperativa Il Sole e la Terra di Bergamo e Scarabée in Francia à Rennes, che sarà poi determinante per la nascita della rete delle Biocoop, oggi la più importante rete distributiva di prodotti biologici in Francia basata su un modello cooperativo unico tra produttori, negozianti e consumatori.
Verso la fine degli anni ’80 le aziende agricole e i negozi del biologico si strutturarono e professionalizzarono, contemporaneamente fiorì una miriade di progetti distributivi specializzati, iniziò a manifestarsi un interesse più diffuso da parte dei consumatori per i prodotti biologici, sempre più apprezzati per le loro valenze salutistiche, etiche e ambientali. Si assistette inoltre alle prime sperimentazioni di vendita di prodotti biologici nelle catene di supermercati come Tesco e Sainsbury in Inghilterra. Contemporaneamente l’agricoltura biologica iniziò a destare interesse anche a livello di politica agricola europea, sia per le valenze ambientali sia per la presunta minore produttività rispetto all’agricoltura industriale, le cui eccedenze erano causa di sprechi e disequilibri giganteschi.
Fu così che nel 1991, a tutela dei produttori e dei consumatori confusi dal proliferare di standard nazionali e privati, nonché come base per il lancio di incentivi al settore agricolo, venne emanato il primo regolamento europeo sulla produzione e sull’etichettatura degli alimenti biologici di origine vegetale, il Regolamento 2092/1991. A quest’ultimo seguì il Regolamento 1804/1999 che disciplinò le produzioni animali biologiche e diverse modifiche al Reg. 2092/91 che, tra l’altro, introdussero un logo comunitario per il biologico.
Dal 1999 al 2001, a seguito dello scandalo della “mucca pazza” e del crescente timore per gli OGM, si assistette al fenomeno del “bio che boom”, ovvero all’aumento repentino della domanda causato anche dall’ingresso della grande distribuzione nel settore con lo sviluppo di prodotti a marchio proprio (in Italia prima Esselunga e poi a seguito Coop e le altre catane). In pochi anni (dal 1999 al 2004) le superfici a regime biologico nel mondo triplicarono, riuscendo a seguire la crescita del mercato. Dal 2007 in poi, si è allargato però sempre di più la forbice tra la crescita del mercato (che dal 1999 al 2013 è sestuplicato) e la crescita più contenuta e diversamente distribuita della superficie a biologico (che nello stesso periodo è soltanto quadruplicata) .
Dando uno sguardo alle statistiche più attuali (aggiornate al 2013) relativamente ai primi 10 Paesi in termini di superficie agricole a biologico, vediamo che l’Italia si posiziona al sesto posto come superficie complessiva, spiccando però come il paese con la maggiore percentuale della SAU a biologico (oltre il 10%), il maggior numero di aziende agricole biologiche (oltre il 20% delle quali però è a gestione “mista” biologica e convenzionale), il più grande valore di esportazioni (oltre un miliardo di dollari). In questo elenco notiamo inoltre che il valore della superficie media delle aziende biologiche italiane è il più piccolo (29 ha). Le aziende italiane del resto sono localizzate prevalentemente nelle aree collinari e montane, dove con il passaggio generazionale si è recuperata innovandola la tradizione dell’agricoltura familiare latina, da sempre molto vicina alle metodologie del regime biologico.
Sotto diversi aspetti si è posto però da qualche anno il problema della cosiddetta “conventionalization” dell’agricoltura biologica, ovvero della sempre più marcata acquisizione da dell’agricoltura biologica di caratteri tipici del sistema agro-industriale, quali il sempre più spiccato processo di globalizzazione (evidente dal disequilibrio tra la distribuzione mondiale dei terreni a regime biologico e delle vendite al dettaglio) , l’acquisizione di “marchi” biologici storici da parte dell’industria agroalimentare, la posizione di dominanza che la grande distribuzione sta acquisendo nel settore con i propri marchi commerciali “bio”, lo sviluppo di aziende biologiche industriali che, seppur conformate ai vari regolamenti nazionali, adottano una genetica agricola e animale selezionata per il convenzionale ed una gestione aziendale basata principalmente su input esterni (certificati).
Per fronteggiare il problema della “convenzionalizzazione” , nel 2005 IFOAM, attraverso un processo partecipativo piuttosto complesso, è giunta a definire e ribadire quelli che dovrebbero essere i “principi” fondamentali dell’agricoltura biologica, due di carattere scientifico (salute ed ecologia) e due di carattere etico (equità e cura).
In questo contesto estremamente critico per il futuro dell’agricoltura biologica, l’Italia, oltre a brillare per i dati di crescita, si è distinta, almeno in Europa, per i continui casi di frode che si sono susseguiti con ritmo incessante dal 2011 a giorni nostri (Gatto con gli stivali, Green War, Bio Bluff, Aliud pro oliio, Vertical Bio) e che hanno mostrato delle debolezze imbarazzanti nel sistema di controllo basato sugli organismi di certificazione privati, a loro volta controllati dall’Autorità pubblica.
Le variazioni quantitative dei cereali e delle colture industriali (mais e soia soprattutto) importate in Italia dai paesi dell’Europa non UE, tra il 2011 (anno dello scandalo del Gatto con gli Stivali) e il 2012, importazioni che sono passate in un anno da oltre 90.000 tonnellate a 2.000 tonnellate scarse, danno un’idea della gravità del problema che ha scatenato profondi conflitti tra Federbio (la principale organizzazione di rappresentanza del biologico italiano, espressione in particolar modo degli interessi degli organismi di controllo e dell’industria di trasformazione e di distribuzione) e l’ufficio agricoltura biologica del MIPAFF.
Sotto osservazione diretta delle autorità comunitarie, l’Italia ha dovuto così adottare, a partire dal 2012, delle profonde modifiche all’organizzazione del sistema di controllo biologico (come l’obbligo per le aziende ad assoggettarsi ad un unico organismo di controllo) e a dare l’avvio al Sistema Informatico Biologico pensato per gestire centralmente dati fondamentali quali l’elenco della aziende assoggettate al sistema di controllo biologico e i piani annuali di produzione. Parallelamente al lento avvio del SIB, non ancora operativo per la gestione dei dati molti sensibili relativi ai piani di produzione, Federbio sta cercando di implementare un sistema di controllo alternativo, basato su una piattaforma tecnologica estremamente sofisticata gestita su base privatistica.
In questa situazione estremamente critica è andata poi maturando la recente proposta di modifica del Regolamento europeo sul biologico, il cui obiettivo dichiarato è quello di rafforzare l’integrità del prodotto biologico mantenendo l’agricoltura biologica coerente con i propri principi di base.
E’ in quest’ottica che devono essere viste le ipotesi di modifica al sistema dei controlli in essa contenute, che vanno dal passaggio del focus ispettivo per le importazioni dalle analisi documentali di processo alle analisi chimico-fisiche dei prodotti, l’eliminazione dal sistema delle aziende miste (biologiche e convenzionali) e le varie deroghe nazionali, regionali e provinciali che permettono di utilizzare nel biologico materiali (come le sementi) e metodologie (come la monocultura) tipiche dell’agricoltura industriale.
Federbio, in Italia, si è subito dichiarata contraria a queste ipotesi di modifica e la Germania, insieme ad un piccolo gruppo di Paesi nord-europei, è riuscita a congelare la proposta sul cui proseguo o rigetto di dovrà decidere a breve.
Coerenza con i principi o adesione remissiva alle richieste sempre più pressanti dell’industria alimentare e, soprattutto, della grande distribuzione: è questo il problema cruciale che l’agricoltura biologica si trova oggi di fronte. In Italia, dove il dibattito internazionale sulla cosiddetta “convenzionalization” non ha destato particolare interesse, si sta facendo avanti l’idea che l’agricoltura biologica debba necessariamente porsi in sinergia con l’agricoltura industriale, abbandonando l’antagonismo tipico del passato, giudicato “ideologico”2. Del resto, il presidente di Federbio, Paolo Carnemolla, ha recentemente affermato: “Se vogliamo che tutti i consumi alimentari tendano al bio non possiamo prescindere da un’industrializzazione crescente”3.Il problema che intendiamo sottolineare, in conclusione di questo scritto, è che l’adesione passiva ad alcuni dei caratteri del sistema agro-alimentare industriale (forte dipendenza da input esterni, globalizzazione, lunghe filiere di trasformazione, di impacchettamento e di distribuzione) non riflettono tanto un atteggiamento “laico” o “post-ideologico” quanto piuttosto un rigetto dei principi di base dell’ecologia, che è il vero fondamento storico e scientifico dell’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica, del resto, con i suoi 43 milioni di ettari di superficie coltivata, rappresenta oggi meno del 3% della superficie agricola coltivata del pianeta ed è quindi è ben lungi dal rappresentare un’alternativa globale all’agricoltura industriale.
Per questo crediamo che l’adesione ai principi piuttosto che al mercato, rappresenti la via più coerente con la storia dell’agricoltura biologica e, nel contempo, la via più promettente per costruire un futuro diverso e alternativo rispetto al sistema agro-industriale che, come si è detto nel Manifesto di Brescia, presenta delle crepe e delle vibrazioni pericolose e, aggiungo, sta vedendo il biologico ( e il commercio equo e solidale) solo come un modo per mascherare le proprie contraddizioni e, ovviamente, per generare profitti.1-Il processo Haber-Bosch rappresenta ancora oggi il metodo prevalente di produzione dell’ammoniaca e quindi dei fertilizzanti azotati. Il processo consuma attualmente tra l’1 e il 2% della produzione annuale di energia a livello mondiale (dal 3 al 5% della produzione di gas naturale). Si stima che oltre un terzo della popolazione mondiale dipenda per la propria sussistenza alimentare da questo processo e che oltre la metà dell’azoto presente nei tessuti umani sia di derivazione sintetica.
2-Si legga al riguardo il recente articolo di Duccio Caccioni, dal titolo “Un biologico post-ideologico”: http://www.expo.rai.it/biologico-post-ideologico-caccioni/
3- “Il rischio industrializzazione nel mondo del biologico” di Paolo Carnemolla, 17/01/2014 in Pensieri e Parole: http://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/editoriali/18422-il-rischio-industrializzazione-nel-mondo-del-biologico.htm
-
Xylella Fastidiosa o Fastidiose Conseguenze dell’Agricoltura Industriale?
Cosa succede nel Salento? Perché gli olivi si seccano? Perché quest’anno non c’è olio?
Sgombriamo subito il campo da fastidiosi travisamenti e da imcomprensioni. Quest’anno c’è stata una scarsa produzione di extravergine soprattutto a causa delle conseguenze delle condizioni climatiche sull’allegagione dell’olivo e sull’andamento anomalo della riproduzione del normale e più comune parassita delle olive: la mosca delle olive (Bactrocera oleae).
Questo non ha una relazione diretta con la xylella fastidiosa, il batterio presente nella sindrome del disseccamento rapido dell’ulivo: si tratta di due cose differenti. Eppure sembra esserci, anche qui, un filo rosso che lega i due fenomeni.
Il filo rosso è la mancanza di una prospettiva ecologica nell’agricoltura industriale convenzionale e le conseguenze che un uso scellerato del pianeta stanno avendo sull’andamento climatico, sulla composizione dei suoli, sulla resistenza delle piante nei confronti di attacchi da parte di parassiti, di batteri e funghi.
La situazione di indebolimento degli oliveti è legata allo “sfruttamento industriale” che fornisce, più o meno volontariamente e continuamente “fattori di stress” alle piante, ma che spesso opera un vero e proprio “biocidio” nei confronti di un ambiente costretto a sorbirsi pesticidi, diserbanti, antimicotici sempre “più efficaci”.
Guardate brevemente una parte di questa conferenza del Prof. Xiloyannis dell’Università della Basilicata.
Xiloyannis afferma che
“Abbiamo consumato tutta la sostanza organica? Sostanza organica vuol dire CO2, quindi […] una buona parte di CO2 atmosferica deriva dal suolo agricolo“
La gestione del suolo, da questo punto di vista, è una discriminante fondamentale della sostenibilità agricola. Una agricoltura ecologica deve accumulare sostanza organica nei suoli; deve ridurre la quantità di CO2 emessa in atmosfera ed avere un saldo positivo, cioè accumulare CO2 nei suoli sotto forma di sostanza organica.
L’accumulo di sostanza organica nei suoli – è dimostrato – a lungo andare migliora la fertilità del terreno, ma implica una diversa, e spesso più complicata, gestione del suolo. La sostanza organica è una benedizione per le piante e permette, grazie anche ai microrganismi presenti, di elaborare quelle sostanze con cui si nutrono e si “curano” e con le piante affrontano i fenomeni di stress (come la Xylella fastidiosa).
Siamo tornati alla Xylella fastidiosa, che è stata accusata forse ingiustamente di essere la sola e unica responsabile della malattia che fa morire gli olivi in Salento. Si, perché quello del disseccamento rapido, a giudizio di alcuni, sembra essere più una sindrome, cioè qualcosa di non riconducibile ad un unico fattore. L’analisi dei campioni di olivi infetti inviati all’autorità, infatti, ha individuato una molteplicità di fattori come probabili cause o concause del disseccamento rapido.
Gli olivi “erano generalmente colpiti da un insieme di organismi nocivi comprendenti X. fastidiosa, diverse specie fungine appartenenti ai generi Phaeoacremonium e Phaemoniella, nonché Zeuzera pyrina (falena leopardo)”(1).
Nel frattempo la comunicazione politica, però, ha operato come se la constatazione della presenza della xylella di alcuni dei campioni inviati fosse la conferma dell’origine batteriologica del disseccamento rapido. Per eradicare questo batterio (xylella) si è messo a punto un programma di desertificazione dei suoli senza precedenti. Guardate cosa dice, ad esempio, il commissario Silletti – Commissario delegato per l’attuazione degli interventi, in un convegno del 10 Aprile a Brindisi:
“Il vero problema saranno le piante infette: si passerà all’eradicazione con l’Arif (Agenzia regionale per le attività irrigue e forestali) e si dovrà passare all’eradicazione delle piante cosiddette “ospiti”, quelle cioè che vengono considerate sensibili e, quindi, più facilmente infettabili dal batterio.- ha dichiarato Silletti durante l’incontro – Si tratta soprattutto di piante ornamentali, come l’oleandro e la malva, quindi molto diffuse nelle nostre zone. Mentre per queste si passerà all’eradicazione, solo per le querce si dovranno attendere prima gli esami e poi, se necessario, le estirpazioni dal terreno.” (2)
Succede contemporaneamente che Ivano Gioffreda, alcuni di voi lo ricorderanno presente all’edizione di Genuino Clandestino di Bologna, pubblica alcuni video su youtoube e finisce anche su rai3.
Gioffreda sostiene, insieme ad alcuni agronomi e professori universitari, che interventi di buona pratica agricola siano un buon rimedio per combattere efficacemente il fenomeno. Un po’ di poltiglia bordolese, una buona potatura invernale, il sovescio, un ammendante e un sostanziale aumento di sostanza organica nei suoli, le piante mostrano una risposta buona risposta vegetativa.
A onor del vero, le ricerche scientifiche sulla Xylella sono tuttora in corso, e alcuni sostengono che il “riscoppio” vegetativo potrebbe essere una fase (la pianta reagisce attraverso vasi linfatici non attaccati dal batterio) di un percorso che porterà comunque al disseccamento della pianta.
Se la scienza non possiede certezze al momento, la politica e l’apparato giudiziario reagiscono come possono, interpretando il “principio di precauzione” in un modo quantomeno particolare. Alcuni giorni prima del convegno citato, ad esempio, il commissario Silletti (incaricato dalla regione Puglia di stilare un piano di intervento) era stato sentito da un procuratore della repubblica – come leggiamo sulla Gazzetta del Mezzogiorno
“…per accertare l’origine e la diffusione del batterio killer che sta uccidendo gli ulivi salentini e se la strategia messa in atto dalla Regione per contrastare l’infezione abbia una valenza scientifica. Il reato ipotizzato nell’inchiesta è di diffusione colposa di una malattia delle piante. Nel chiuso della stanza del pm Mignone, co-titolare dell’inchiesta insieme al pm Roberta Licci […]” (3)
Il piano d’intervento, infatti, sembra aver dato origine ad un decreto di lotta obbligatoria, elaborato inizialmente dalla regione Puglia, poi diventato nazionale e presentato alla Commissione Europea; che lo ha adottato e che ha quindi validità legale. Va, cioè, rispettato e fatto rispettare. Ma questo avviene in un contesto in cui la scienza ad oggi non ha ancora accertato se, effettivamente, il batterio Xylella fastidiosa è responsabile del disseccamento delle piante.
Ma andiamo oltre, nelle pieghe di tutta questa questione cominciano ad emergere dei vantaggi, delle occasioni di altro tipo. Ci sono persone, ad esempio, che tutto sommato trovano vantaggiosa l’eradicazione delle piante magari per fare speculazione edilizia, li dove c’era la protezione delle piante centenarie (cosi, ad esempio, titola un quotidiano L’altra faccia della xilella: “Ulivi infetti? Abbattiamoli e costruiamoci una casa.).
Ma la questione della protezione delle piante di olivo centenarie sembrerebbe ostacolare anche l’olivicoltura di tipo industriale, che insegue costi minori, da realizzare con minore ricorso alla manodopera e maggiore meccanizzazione (piante a a spalliera, macchine scavallatrici, ecc.). Per l’agroindustria italiana, forse, la “peste dell’olivo” potrebbe essere un’occasione per “ristrutturare”, “riconvertire” oliveti che hanno costi di produzione più alti, che quindi non riescono a stare sul mercato visti i prezzi della materia prima nelle borse merci. Una olivicoltura alla spagnola, spalliere, macchine scavallatrici, costi inferiori.
In molti guadagnerebbero da questa riconversione, ma non gli agricoltori, che si ritroverebbero nella solita gara al ribasso fatta sulla loro pelle.
Che il mondo dell’olivicoltura industriale vada cercando una strada di questo tipo emerge con chiarezza dalle politiche di governo; governo che ha approvato recentemente un Piano Olivicolo Nazionale dove si dice chiaramente che l’obiettivo è quello di perseguire “una politica di riduzione dei costi”.
“Una politica di riduzione dei costi passa per un complesso di interventi che prevedono:
a) la meccanizzazione delle operazioni di potatura;
b) la meccanizzazione delle operazioni di raccolta (agevolatrici o meccanizzazione,…)
c) la razionalizzazione degli impianti, dei sesti di impianto e delle forme di allevamento, per favorire le operazioni di manutenzione del terreno e le operazioni colturali; […]”Ma chi sono gli altri portatori di interessi nei confronti dell’abbattimento degli olivi secolari salentini?
La Xylella non è un parassita nuovo, ha già causato danni in giro per il mondo sulla vite, sugli agrumi, ma anche su altre specie ed era stata oggetto di un convegno organizzato dallo IAM di bari nel 2010 (allora non si erano ancora presentati casi di xylella), in cui pare siano state fatte delle sperimentazioni con un ceppo del batterio (il “multiplex”) diverso da quello trovato poi a partire dal Salento, negli ulivi pugliesi (“pauca”).
“Come è noto, le indagini si concentrano sulla possibilità che il convegno sulla Xylella organizzato dallo Ististito Agronomico Mediterraneo (IAM) di Bari nel 2010 e le sperimentazioni attuate in quella sede possano essere state la fonte fondamentale del contagio. Le indagini sono in corso e certamente forniranno informazioni utili. Certo, sappiamo che il contagio ha colpito il sud Salento, e nessun caso è stato riscontrato nel barese – circostanza che è quanto meno difficile da spiegare se si sposa l’idea del contagio partito da Bari.” (4)
Lo stesso istituto precisa che il batterio è stato riscontrato su materiale vegetale proveniente dal CostaRica, di questi ultimi giorni l’individuazione del batterio anche in Francia su materiale olandese proveniente dal paese sudamericano.
La Monsanto, chiamata in causa dalla teoria del complotto fin dall’inizio, è “colpevole” per il momento di avere una società in Brasile denominata Alellyx. La Alellyx è una società che si occupa di genomica e che tra i suoi progetti si aspetta un ritorno economico dal sequenziamento proprio della xylella fastidiosa per realizzare piante OGM resistenti o altri rimedi. La Monsanto, accusata di aver provocato l’infezione per vendere materiale vegetale resistente, ha smentito la notizia che in Israele fossero pronti ulivi OGM resistenti al batterio, però non si può dire che la loro ricerca non preveda in futuro la produzione di varietà geneticamente resistenti o la messa a punto di altri metodi di controllo del batterio, anche perché la società Alellyx fa proprio questa cosa qui, e lo dichiara pubblicamente (anche se non per l’olivo).
Se avete avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, torniamo all’agro-ecologia e al filo rosso che lega la xylella, il TTIP, Genuino Clandestino e la Monsanto (intesa qui come rappresentante simbolico dell’agricoltura industriale). Viene da chiedersi cosa comporti la strategia economica delineata dal TTIP nei confronti di fenomeni come questo, di mondializzazione dei parassiti, delle virosi e delle micosi di cui si parla molto degli ultimi tempi.
Se specie vegetali, cibi e merci in genere viaggiano con più facilità tra i continenti per il fenomeno della globalizzazione, non ci dobbiamo forse aspettare una intensificazione di questi fenomeni? Se la libera circolazione di queste “merci” pone sfide economiche inique, non sarà che questo comporterà un maggiore inaridimento dei suoli, perché i contadini si troveranno a dover spingere maggiormente i loro terreni per produrre di più e a prezzi più bassi? Se la distanza che le merci percorrono aumenta, non va questo in direzione di una maggiore quantità di CO2 nell’aria? Ha senso tutta questa rincorsa alla competitività per chi coltiva la terra o non è forse meglio cercare nella relazione diretta tra chi produce e chi consuma quei prodotti?
-
Il Manifesto di Brescia: convergenze e divergenze.
Leggendo il Manifesto di Brescia, che verrà presentato nel corso di un convegno presso la Fondazione Luigi Micheletti che si terrà tra il 20 ed il 22 aprile prossimi, soprende come anche il mondo accademico ormai giunga a conclusioni simili a quelle che Campi Aperti e tutto il movimento per l’agricoltura contadina ormai da anni propongono.
Eh si, son soddisfazioni!
Poi leggi meglio e analizzi i promotori del convegno e… dispiace un po’ che alcuni degli organizzatori del convegno, dopo aver condiviso certe affermazioni, si facciano poi irretire dalla chimera Expo, senza comprenderne fino in fondo la perniciosità e, di fatto, contribuendo ad alimentare quel sistema che dichiarano di voler superare.
O, forse, proprio comprendendo bene in che gioco si sono infilati e scegliendo, quindi , la complicità?
Si pone, a noi che non siamo stati irretiti, credo, il problema di come (se è possibile) aumentare la diffusione di questi temi, soverchiando la potenza mediatica di soggetti più “rumorosi” che poi si rivelano utili collaboratori del sistema. Esche che nascondono l’amo del modello dominante per soggetti che vorebbero sfuggirgli.
Mentre alcuni, che capisco e in qualche modo mi affascinano, sono per adottare una linea di intransigente autosufficienza per evitare di farsi fagocitare – come successo agli aderenti all’Expo dei Popoli, per esempio – a me viene il dubbio che questo processo di progressivo isolamento in riserve omogenee per pensiero finisca col portarci al collasso insieme al resto del sistema. Non si tratta, cioè, sempre a mio personalissimo parere, di accrescere il numero (come, poi?) dei sostenitori della nostra visione alternativa, ma di farlo contemporaneamente alla sottrazione del maggior numero possibile di aderenti al modello dominante. Cosa che non si può fare se non andando a pescare nello stagno altrui, temo.
La crisi, chiaramente, potrebbe determinare un terreno fertile per l’attecchimento di proposte alternative. Oppure accelerare la degradazione e avvicinare il momento dell’implosione, economica ed ecologica, del sistema globale.
Il discrimine, credo, si giocherà nella capacità di chi pratica esperienze di resistenza reale, di includere i soggetti marginalizzati dal liberismo, prima che cadano nella trappola – preparata da tempo – del modello del consumismo per tutte le tasche, egregiamente esemplificato dai discount. E svelando l’amo di cui sopra al resto delle prede predestinate.
Ma, per compiere questa operazione, quale mediazione è accettabile? E’ possibile determinare a priori il livello di contaminazione sopportabile senza perdita di contenuti? Oppure le contaminazioni sono tutte inaccettabili ed è meglio tenersi alla larga anche solo dal pericolo di essere accomunati a qualcuno dei “nostri nemici”?
E il rischio di contaminazione è evidentemente reale, se si sceglie di spostarsi da uno specchio d’acqua ad un altro.
Per non parlare poi del pericolo rappresentato da coloro che governano il riempimento degli stagni: i politici. Si può aprire una vertenza con il gestore del rubinetto, senza che questo determini la fine dell’alterità che incarniamo?
Confesso di essere combattuto, ma, forse, i tempi bui che stiamo attraversando e che ci stanno conducendo al collasso sociale ed ambientale richiedono una pragmaticità che dobbiamo concederci anche a scapito di una parte della nostra identificabilità.
Forse, la via di uscita è rappresentata da una radicalità delle pratiche, affiancata dalla disponibilità al confronto con il resto dei soggetti politici attualmente sulla scena.
O è solo un’illusione auto-assolutoria?
Pierpaolo
-
LETTERA APERTA A CAMPIAPERTI
Cari Campi Aperti,
allo stato attuale delle cose è sotto gli occhi di tutt* che la visione
antropocentrica del mondo stia distruggendo il pianeta, ci vuole un
cambio di paradigma radicale ed è proprio in questo contesto di presa di coscienza
ambientale che prendono vita tutte le varie iniziative, fra cui progetti
come il mercatino dei Campi Aperti, che vanno a rileggere in senso politico la posizione
dell’uomo sul pianeta.
Mentre il sistema capitalistico corre a ruota libera verso il disastro,
i movimenti libertari approfondiscono l’analisi della Liberazione
scavando sotto i concetti di Fascismo e di Dominio per smantellarli attraverso la loro
declinazione in significati più precisi ed attuali. Ad esempio
l’applicazione dell’analisi politica alle relazioni personali ha portato alla critica del patriarcato,
all’individuazione del sessismo come pratica di dominio e
all’autoliberazione, almeno teorica, delle donne e delle soggettività
LGBTQI.
L’istanza antispecista si colloca su questa linea di messa in
discussione dei dispositivi di dominio palesando il tabù che cela la
segregazione e la sofferenza di miliardi di oppressi. Proprio intorno alla Sofferenza e la Vulnerabilità
si sviluppa un’analisi che coinvolge pensatori e pensatrici di
molteplici estrazioni, dalla filosofia etica alla teoria queer, dall’antropologia alla storia.La questione animale nella sua forma più recente ci si presenta come
Antispecismo che si distingue dall’Animalismo perché va a riposizionare
l’umano fra gli animali oppressi e sfruttati e lotta per la liberazione
di tutti gli animali insieme, umani e non, individuando una uguaglianza
formale e una continuità storica fra i sistemi di sfruttamento che opprimono i non umani e quelli che
opprimono gli umani.Dopo la dichiarazione di Cambridge sulla Consapevolezza, in cui premi
nobel e luminari delle neuroscienze hanno dichiarato che per la scienza
oggi è evidente che la maggior parte degli animali, sicuramente tutti i
mammiferi, gli uccelli ed i polpi, siano da ritenersi coscienti in una
misura simile a quella umana, si hanno motivazioni ancora più certe e
chiare per dichiarare che l’immaginario che vede gli animali come merce
sia non solo scientificamente infondato e collassante dal punto di vista
ecologico, ma anche eticamente problematico; da cui la messa in
discussione di alcuni nuovi miti mistificatori,
come quello della fattoria felice. L’università di cambridge ha
confermato (cosa nota a chiunquee abbia vissuto con un cane) che ogni
singolo animale, sviluppando coscienza, si delinea come individuo, con
caratteristiche, simpatie, avversioni personali e un identità unica.Il collettivo antispecista di xm24 pone domande che rimangono
tragicamente aperte: è giusto lucrare sulla sofferenza e prigionia di
individui? La diversità è un termine utilizzabile per avvallare la sofferenza e la prigionia di
individui? Consapevoli che nessuno di noi sia alle prese con la
sopravvivenza base ma che l’ industria del consumo e sfruttamento animale sia atta solo a
soddisfare il gusto ma nessun bisogno primario, ci domandiamo se è
giusto imprigionare, sfruttare e uccidere per motivi di gusto. Lo
sfruttamento animale risponde a un istinto naturale insito nell’uomo o
le cose andavano diversamente prima che cominciassero a circolare libri
scritti da dio con passaggi simili a questo:
..riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra»…?Anche in un contesto che riconosce la necessità di una decrescita felice
e di svincolare l’umano dalla macchina del cibo industriale, a senso
auspicare un ritorno acritico alla vita contadina?Vi scriviamo perché essendo xm24 sostenuto e formato anche dalle istanze
politiche dell’ antispecismo ed essendo il mercatino del giovedì
attraversato da moltissim antispecist, vorremmo che il dibattito sulla
questione animale, che anima questo spazio da molti anni, fosse esteso
anche all’assemblea di Campi Aperti e alle sue individualità.Gli/le antispecist che frequentano il mercatino avvertono con disagio la
vendita di corpi e prodotti animali e i/le tant antispecist del
collettivo xm24 trovano che l’aggiunta tacita di un ulteriore bancarella specista con tranci
sanguinolenti sottovuoto sia in linea con il silenzio comunicativo che
si è creato fra xm24 e il mercatino su questo tema ormai da anni.Quindi se in passato ci sono state modalità troppo dirette vorremmo con
questa lettera, e avvalendosi del consenso di xm24, allargare la
discussione a chiunque voglia contribuirvi per quello che riguarda lo
spazio comune e la sua gestione. Crediamo che soprattutto all’interno
del perimetro del centro sociale le questioni che emergano riguardanti sessismo, razzismo, autoritarismo,
fascismo e specismo vadano discusse col centro, per il motivo che al suo
interno ci sono persone che trattano queste materie e non possiamo fare
finta che xm24 sia un contenitore vuoto. Vogliamo che il centro sociale
e il mercatino continuino a offrire quella piazza, non neutra ma plurale e politica, dove le
argomentazioni possano trovare modo di confrontarsi pubblicamente da
pari.La distinzione fra biologico industriale e biologico autocertificato
promossa da genuino e clandestino si approfondisce nel mercato del
giovedì dove il discorso sulla vita (bio logos) arriva a coinvolgere produttori e
consumatori oltre che i prodotti; vorremmo che le scelte fatte
reggessero il confronto con un’etica radicale non riconducibile al green washing (pitturatina verde)
utilizzato dai supermercati, ma siano parte integrante dello scambio di
idee, appunto, plurale, che avviene nella meravigliosa agorà che campi aperti e xm24
sanno creare insieme.Nei giorni 15 e 16 aprile ospiteremo due eventi No-Expo che mostrano
esattamente il tipo di attitudine che questa lettera cerca di avviare,
il 15 ne parlerà genuino e clandestino mentre il 16, nella Cena parlata
Il PiattoEXPOrco, ne parleranno gli/le antispeciste da milano con
BellaVeg, Earth Riot e Frangettestreme. Per i due eventi sarà redatto un
unico volantino e si cercherà una commistione di interventi e contenuti.Trovandoci come spazio xm24 a condividere e ospitare istanze ampie i cui
margini entrano in contrasto fra di loro non troviamo miglior proposta
che portare le questioni al centro in modo che possano confrontarsi in modo
schietto e trasparente.Siete tutt invitat a tutti e due gli eventi!
XM24
-
Il TTIP, De Castro e la mosca
Il TTIP non aiuterà l’agricoltura contadina, né la sovranità alimentare, ma solo le multinazionali. Alcuni giorni or sono, infatti, Fairwatch ha pubblicato un interessante rapporto dal titolo “Contro il TTIP, con i piedi per terra” in cui si analizzano le ricadute probabili dell’accordo di libero scambio sull’agricoltura, sul cibo e la sovranità alimentare, a discapito degli annunci entusiastici e propagandistici che circolano.
Leggendo il rapporto Fairwatch vien facile immaginare le ricadute e le tipologie di organizzazioni economiche che trarranno i maggiori benefici da una più facile circolazione di merci tra le due sponde dell’oceano. Il TTIP viene propagandato agli agricoltori come un accordo vantaggioso, in grado di rilanciare la produzione primaria e, in special modo per il settore oleicolo, vinicolo e quello marchi dop, igp, ecc., di offrire maggiori mercati di sbocco per il prodotto italiano.
Così De Castro, in un articolo rilasciato ad Italia oggi, chiarisce in che cosa, secondo lui, consisterebbe questo vantaggio per l’agroalimentare italiano: “La bilancia delle esportazioni pende dalla parte europea essenzialmente grazie a vino, pasta, conserve, insaccati, olio. Esportiamo produzioni ad alto valore aggiunto dal Sud Europa, mentre importiamo materie prime, componente principale dei sistemi produttivi del Nord, in parte anche di quello tedesco. Ne consegue che i paesi del Sud hanno convenienza ad avere un atteggiamento offensivo per l`agroalimentare…“.
Il TTIP, infatti, sarebbe vantaggioso per l’industria agroalimentare perché consentirebbe maggiori esportazioni e più facili importazioni di prodotto. Da diversi anni a questa parte, infatti, la crescita delle esportazioni agroalimentari “italiane” comporta parimenti la crescita delle importazioni di materia prima, mentre la materia prima nazionale è costretta a prezzi che non coprono i costi di produzione.
E’ l’industria agroalimentare, e non la produzione primaria, ad avere interessi e vantaggi da un accordo di libero scambio. Una maggiore facilità di acquistare materia prima sul mercato internazionale è, per l’industria agroalimentare (industria di sua “natura” transnazionale), che usa trasforma e rivende materie prime che non produce, la possibilità di ricontrattare al ribasso i prezzi su tutto lo scenario internazionale. Questa revisione al ribasso dei prezzi ha per l’agricoltura contadina nazionale un effetto ancor più devastante e deprimente della già difficile situazione attuale.
Prendiamo il caso dell’olio d’oliva, il quantitativo d’olio extravergine d’oliva prodotto in Italia non è sufficiente a coprire il consumo interno ai confini dello stato. A fronte di una produzione che si attesta mediamente tra le 400 mila e le 500 mila tonnellate, il solo consumo interno si aggira tra le 600 e le 700 mila tonnellate di extravergine. Ma allora, perché i produttori hanno difficoltà a vendere il proprio prodotto sul mercato locale?
La presenza nella GDO di prodotto a prezzi bassi ne è la causa prima e in molti scelgono il prodotto della GDO in offerta o di prezzo. Per ottenere questi prezzi particolarmente concorrenziali, però, l’industria agroalimentare non compra necessariamente sul mercato locale, ma principalmente in Spagna, Tunisia, Grecia e rivende sia in Italia e sia all’estero. La conseguenza è che il prodotto italiano, che non sarebbe sufficiente neanche per il mercato interno, resta invenduto o venduto sotto-prezzo.
Secondo il ministro De Castro, gli olivicoltori italiani (grazie al TTIP) potranno sperare di vendere il proprio prodotto negli Stati Uniti (non in Italia dove non sarebbe sufficiente neanche per una metà degli italiani): la terra delle opportunità. Gli olivicoltori italiani che volessero vendere direttamente il proprio prodotto, secondo il ministro, dovrebbero andare a vendere negli Stati Uniti e lasciare il campo libero in casa all’industria agroalimentare, oppure svendere la produzione all’industria a prezzi internazionali.
La crescita del “made in Italy” nel comparto dell’olio extravergine d’oliva, in altre parole, da tempo ormai, utilizza prodotto importato dall’estero, confezionato per essere rivenduto. Mentre, la presenza sul mercato interno di merce più economica deprezza il prodotto locale ad un valore non remunerativo per il prodotto nazionale. L’agricoltura contadina subisce così la concorrenza sleale dell’industria agroalimentare in casa e, per giunta, dovrebbe anche liberare il campo vendendo all’estero, oppure chiudere baracca e burattini.
Da anni, a fronte di una crescita continua delle capacità commerciali dell’industria agroalimentare, la produzione olivicola ha avuto un andamento decrescente e molti oliveti versano in stato di abbandono; stato di abbandono che, tra parentesi, è anche uno dei motivi (oltre all’andamento climatico) dell’eccezionale ondata di mosca delle olive che ha colpito gli oliveti italiani nella scorsa annata.
Per rendere economicamente vantaggiosa la produzione interna, caratterizzata da un deficit competitivo legato a costi di produzione maggiori e prezzo di partenza più alto degli altri, ci si è sperticati a spingere gli agricoltori sulla qualità, dop, igp e certificazioni biologiche, con l’obiettivo di creare una nicchia di mercato per l’olio italiano e orientare i produttori verso il mercato estero. Ma questa politica commerciale illusoria (il presso medio dell’olio esportato verso gli Stati Uniti nel 2013 è stato di € 3,74 al kg) non ha fatto altro che continuare a favorire le multinazionali dell’olio, a scapito degli olivicoltori, tant’è che la produzione olivicola di casa non solo non è cresciuta, ma si è contratta progressivamente fino ad arrivare al minimo storico di quest’anno, complice la mosca e l’andamento climatico.
L’olio prodotto in Italia, grazie al TTIP, forse sarà venduto in giro per il mondo – magari sottocosto e a spese dei piccoli produttori – ma solo per pubblicizzare il marchio italia e attrarre i consumatori d’oltre oceano con l’effetto di ridare smalto alle multinazionali dell’olio, imprese transnazionali interessate solo all’acquisizione del marchio italia.
Ma perché produrre olio in Italia costa più che dalle altre parti? Il costo di produzione non è una variabile solo esterna: la forma che l’organizzazione olivicola ha, pone condizioni che fanno la differenza sul costo di produzione. Far cadere le olive sui teli, raccogliere a mano, con abbacchiatori, scuotitori o macchine scavallatrici produce un prodotto che ha qualità differenziate e costi eterogenei. Il lato esterno del costo di produzione è però molto importante, e se ci si confronta sul mercato internazionale, questi fattori giocano un ruolo cruciale nella competizione. Costi di sicurezza, energetici, tasse, fattori ambientali concorrono a formare il costo finale, senza che l’olivicoltore abbia il potere di far pesare queste differenze.
Se questo è il quadro in cui si muove l’olivicoltura italiana, o ci si autosfrutta e si produce per l’industria agroalimentare rincorrendo un aumento di produzione a fronte di un contenimento dei costi “per restare sul mercato”, sfruttando e mettendo in pericolo se stessi e i beni comuni con il rischio dell’inquinamento, del danno ambientale da pesticidi e concimi, oppure si sceglie una produzione adeguata, rispettosa e sostenibile per l’ambiente e finalizzata alla filiera corta, alla vendita diretta nel territorio, il più prossimo possibile.
Dal punto di vista della sostenibilità ambientale e della sovranità alimentare, quindi, la produzione locale di olio dovrebbe crescere, almeno fino a coprire il fabbisogno interno. Bisognerebbe puntare ad aumentare la produzione oleicola, costruendo condizioni di vantaggio per il prodotto locale venduto sul mercato interno, anche apponendo, li dove fossero necessarie, barriere tariffare e organizzative in grado di regolare i prezzi su un giusto grado di remunerazione del prodotto locale. Se la produzione deve crescere c’è bisogno che il processo sia remunerativo e il TTIP va essenzialmente nella direzione opposta.
Ecco perché il TTIP non aiuterà gli olivicoltori italiani!
alp
-
“La favola degli OGM” che non sono presenti in Europa
Che in Europa non siano presenti prodotti OGM per alimentazione umana ed animale, coltivazione ed altri usi è è una favola a cui bisogna smettere di credere. Diverse piante (Colza, Mais, Cotone, Barbabietole, Soya e Tabacco – per un elenco delle varietà autorizzate vedere http://www.leziosa.com/elenco_ogm.htm) sono già presenti da anni e sono state autorizzate dall’EFSA. L’idea che il TTIP apra la strada agli OGM e la lotta che ne consegue ha un effetto rassicurante sullo stato attuale dell’agricoltura europea, ma lo stato attuale delle cose non è per niente rassicurante!
Come riporta il sito del EFSA (l’autorità europea che si occupa dell’autorizzazione degli OGM in europa), solo tra il 2007 e il 2008 ci sono state più di 25 richieste di rinnovo delle autorizzazioni da parte di Monsanto, Bayer CropScience, Syngenta Seeds, Agrigenetics, Ciba-Geigy, Seita.
“La favola degli OGM” è un libro che informa sugli effetti degli OGM a partire dai risultati della ricerca indipendente, aspramente combattuta dai produttori di sementi OGM, in primis la Monsanto. Daniela Conti ci racconta un percorso di ricerca ventennale proprio ora che c’è più bisogno di essere informati perchè i prodotti OGM sono già qui, nelle cose che mangiamo e che coltiviamo.
Il libro è molto interessante e riporta anche una “rassegna di alcune tra le principali ricerche indipendenti che hanno evidenziato effetti negativi degli OGM sulla salute degli animali da esperimento e sull’ambiente (e gli effetti di queste ricerche sui loro autori)”.
Maggiori informazioni sul sito dell’editore http://www.alkemiabooks.com/it/la-favola-degli-ogm.html
Dr. Daniela ContiBiologa, esperta di genetica molecolare, da oltre 20 anni collabora con alcune tra le maggiori case editrici scientifiche per la revisione e la traduzione di testi scientifici a livello universitario su temi quali biologia, genetica, biotecnologie, ecologia, psicologia e neuroscienze. Ha curato, fra gli altri, autori come Barry Commoner, E. O. Wilson e Michael Gazzaniga, o premi Nobel come Paul Berg. Ha svolto attività di ricerca e didattica presso l’Istituto di Genetica dell’Università di Bologna. Svolge una intensa attività di divulgazione scientifica e di organizzazione di seminari e conferenze per condividere le scoperte della biologia contemporanea soprattutto con i giovani.È curatrice del sito web: www.complessita.itEmail: danielaconti@complessita.it -
Rovesciare il paradigma: l’agricoltura biologica come norma
Siamo abituati a considerare “normale” ciò che normale non è.
Siamo abituati a considerare normale quel tipo di agricoltura che inquina, fa male alla salute, distrugge l’ambiente e la biodiversità e genera in questo modo ingenti costi indiretti per le collettività. La consideriamo talmente normale che riteniamo giusto che questo tipo di agricoltura possa essere finanziata con soldi pubblici, che produca cioè un danno doppio alle nostre economie.
Tutti noi contribuiamo con i nostri soldi perché qualcuno sversi veleni nei terreni e nelle falde acquifere, desertifichi, produca a costi sempre più bassi per permettere alle industrie agroalimentari di vendere a prezzi che non coprono neanche il costo di produzione. Paghiamo perché qualcuno sfrutti il lavoro contadino e renda gli agricoltori compartecipi di questo sfruttamento, alla ricerca di un minimo margine di guadagno, possibile solo attraverso il ricorso crescente a pesticidi, anticrittogamici, concimi chimici, OGM e quant’altro.
Bisogna rovesciare il paradigma che vede l’agricoltura non biologica come la norma e l’agricoltura normale (cioè il biologico) come una sorta di devianza più o meno positiva da incentivare.
Rovesciare questo paradigma vuol dire togliere i contributi agli agricoltori NON biologici, perché altrimenti finanziamo un’economia insana (malattie, inquinamento, riduzione della biodiversità, ecc.). Chi coltiva in modo “normale” e sano, cioè senza l’ausilio di veleni e concimi chimici derivati dal petrolio, al contrario non genera costi indiretti per la collettività . Bisognerebbe piuttosto tassare l’agricoltura non biologica, proporzionalmente all’impatto ambientale. L’agricoltura convenzionale fa concorrenza sleale nei confronti di chi cerca di produrre beni primari riducendo l’impatto ambientale. Una concorrenza sleale che mette sul mercato prodotti a prezzi innaturali, drogati dalla chimica e basati sullo sfruttamento indiscriminato del lavoro e del territorio.
L’agricoltura biologica ha uno svantaggio doppio, perché i prezzi di mercato (anche quelli del biologico) sono sostanzialmente determinati dall’agricoltura convenzionale e in molti casi già così non ripagano i costi di produzione.
Bisognerebbe eliminare la certificazione biologica e certificare invece, con controlli sistematici sui residui, l’agricoltura convenzionale; indicare in etichetta i pesticidi, diserbanti, anticrittogamici utilizzati e mettere disclaimer per rendere consapevole chi acquista del tipo di economia che sostiene comprando quel prodotto: “attenzione questo prodotto danneggia l’ambiente e può far male alla salute”.
Per re-indirizzare il mercato verso una produzione più sana, più rispettosa dell’ambiente, produrre patate, pomodori, zucchine in agricoltura NON biologica dovrebbe costare più che produrre lo stesso “naturalmente” e di questo ne beneficeremmo tutti quanti.